Non
ho più l’abitudine, come in certi anni passati, di concludere la giornata sedendomi
davanti al televisore; e quindi non so dire se ancora oggi questo film di Brian
de Palma possa avere quello strano effetto calamita che, quando mi capitava di
incrociarlo nei miei zapping annoiati, m’induceva a frenare il pollice, a
guardarne qualche scena e poi – una sequenza tira l’altra – a riassaporarlo fino
alla fine, catturato immancabilmente dalla una sua strana fascinazione.
In
omaggio agli infallibili meccanismi di seduzione di questo film, provo a
mettere insieme alcune considerazioni sulla qualità dei suoi ingredienti che
sono la sceneggiatura (e cioè la storia e il modo di svilupparla), la caratterizzazione
dei personaggi (e, ovviamente, la straordinaria recitazione degli attori) e la
regia.
La
sceneggiatura (di David Mamet, autore teatrale, quello, per dire, de Il Postino suona sempre due volte) è
solida ed equilibrata e la vicenda si snoda con un ritmo narrativo denso, teso,
perfetto nei suoi ingranaggi.
Siamo
negli anni ’30, a Chicago, Illinois. Quattro poliziotti si associano per
stroncare la carriera ad Al Capone che controlla la città col traffico di alcool
e con altri affari loschi: il pool è composto Elliot Ness, agente speciale del
Tesoro (Kevin Costner), da James Malone, un vecchio poliziotto irlandese (Sean
Connery), da una giovane recluta di origine italiana, George Stone (Andy
Garcia) e da Oscar Wallace, un ragioniere fiscalista (Charles Martin Smith).
I personaggi
sono a tutta tinta, senza sfaccettature: i buoni sono buoni, i cattivi sono
cattivi. Forse anche per questo manicheismo il film appare grandioso: i quattro
poliziotti assolutamente virtuosi, come angeli, si contrappongono a un gangster
sgradevole e indisponente (ma nello stesso tempo affascinante nella sua
spavalda strafottenza quando sfida Costner urlandogli in faccia l’indimenticabile
“sei tutto chiacchiere e distintivo”). Difficile poi dimenticare fra i buoni il
veterano Malone che si fa ammazzare sulla soglia di casa (e della pensione) e –
fra i malvagi – il suo inquietante e spietato killer vestito di bianco.
Nella
regia, perfetta, De Palma sfodera tutto il suo virtuosismo.
Il
film è un vero e proprio esercizio di stile, un condensato esemplare della migliore
tecnica cinematografica, un’antologia di tutte le regole del linguaggio filmico;
quasi un film sul cinema, si potrebbe dire, buono per essere utilizzato ad un
corso di cinema per mostrare le potenzialità comunicative ed espressive del
mezzo: inquadrature equilibrate (anche quelle inconsuete, fortemente
espressive), piani e campi da manuale, giochi prospettici, angolazioni e
composizioni accuratissime, uso attento delle soggettive (magistralmente
angosciosa quella dell’assassinio di Malone-Connery), controcampi, movimenti di
macchina, montaggi alternati, piani sequenza, rallenty. Non manca nulla.
I
cinefili hanno di che divertirsi nel cercare le visitazioni dei generi (dal
giallo al gangster movie, al thriller, al film d’azione, allo splatter e
all’horror, fino al western) o gli omaggi (a Hitchcock,
a Carpenter o a Kubrik; a Welles, a Kurosawa, a Ford, a Pekinpah e perfino a
Dario Argento, e al pittore Edward Hopper per le ambientazioni) o le citazioni (come
quella della carrozzina che precipita lungo la scalinata della stazione di
Chicago che supera per fama l’analoga scena cult della "La corazzata Potemkin"
di Ejsenštein).
Potrebbe
essere divertente anche cercare registi o film che hanno in seguito tratto
ispirazione da questo capolavoro di Brian De Palma: a me viene in mente Boardwalk Empire, la pregevole serie televisiva
– cinque stagioni – di Terence Winter, prodotta da Martin Scorsese e
interpretata da Steve Buscemi.
Resta
sospeso nell’aria il dubbio che un film così accuratamente confezionato, così
perfetto, così efficace abbia il suo imbarazzante limite proprio nelle
indiscutibili qualità che lo caratterizzano.
Si sa che la perfezione è il peggiore dei vizi.
Ma
tant’è.
Anche
l’ipercriticità è la più stupida fra le perversioni, soprattutto se riferita
allo spettatore (… lasciamola al recensore, che nutre fisime autolesioniste e,
facendo male il suo mestiere, prende le distanze razionali da film che
emotivamente lo coinvolgono).
Se
“Gli intoccabili” – con il suo budget, il cast stellare, il manicheismo
conclamato, la struttura studiata al tavolino, il manierismo – è fatto per
piacere, che male c’è se centra nel segno?
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