Non amo i biopic, ma ho voluto vedere questo film per
riconsiderare a distanza e indagare un po’ la mia antichissima infatuazione per
la poesia di Pablo Neruda.
E a dir la verità ho trovato utile – come un viaggio nella
memoria – la narrazione, sia pure un po’ rimaneggiata, di un momento
estremamente importante della vita del poeta cileno: sapevo effettivamente poco
dei suoi tredici mesi di clandestinità durante i quali, ho appreso, furono
scritte le pagine più potenti del Canto
general.
Il film mi è piaciuto, ma ne sono uscito con qualche
indecifrata perplessità.
Mi è piaciuta la disinvoltura con cui sono presentate le
contraddizioni del personaggio (interpretato da un sornione Luis Gnecco): un marxista
libertino che ama la dittatura del proletariato e la vita notturna; un
sovversivo che frequenta bordelli; un intellettuale narcisista che disquisisce
di letteratura e ostenta con disinvolta vanità il suo corpaccione sovrappeso;
un rivoluzionario eccentrico mitizzato dai minatori in sciopero e adorato dai
borghesi intellettuali di Santiago; un comunista che sfida il potere sapendo di
rischiare la vita ma non accetta le imposizioni dal partito sui modi di
organizzare la latitanza. E nel privato, un amante tenero e sensuale che non
rinuncia alle sue abitudini di puttaniere e frequenta bordelli nei quali accetta
di declamare (a gentile richiesta, fino a farne una specie di parodia) una
delle sue poesie più famose (sempre la stessa, Posso scrivere i versi più tristi questa notte, che da ora in poi
rileggerò con qualche riluttanza).
Mi è piaciuta anche la spigliatezza che il regista dispiega nel
mescolare fatti veri, biograficamente documentati, e situazioni improbabili, efficaci
però nell’illustrare con estrema chiarezza le posizioni politiche e le
concezioni poetiche di Neruda (vedi, ad esempio, la sequenza grottesca in cui il
senatore gira di notte in auto attorno al palazzo del dittatore Videla e pesta
sul clacson per disturbargli il sonno e rompergli le scatole con l’impertinenza
temeraria di un monello o quell’altra scena in cui il poeta questiona di poesia
con una sua ammiratrice ubriaca).
Mi è piaciuta, ancora, l’atmosfera che aleggia in tutto il
film nel quale si respirano l’internazionalismo irrealizzabile e la dittatura
incombente (e s’indovina quella a venire, di Pinochet), ma si assaporano anche
le emozioni che scaturiscono dalla passione amorosa e dal fervore politico.
Mi è piaciuta la scelta delle inquadrature e dei movimenti e
l’uso della macchina da presa (incredibile il piano-sequenza iniziale nei bagni
del senato); mi sono piaciute le scelte cromatiche della fotografia, da quelle
soffuse dei bordelli a quelle livide dell’epilogo; mi ha felicemente sorpreso il montaggio
surreale con dialoghi che si dipanano fluidi fra i personaggi con inattesi scarti
di luogo e salti di tempo (come a significare una coerenza concettuale e una
continuità emotiva nella discontinuità del trascorrere della vita).
Mi è piaciuta infine, anche se confesso di non averla capita
a fondo, l’insistenza del regista sull’ambiguo rapporto che oppone e lega nello
stesso tempo il poeta in clandestinità con il tormentato ispettore di polizia
che lo bracca.
La fascinazione fra inseguitore e inseguito è diffusissima
nel cinema: del tema se ne potrebbe fare una rassegna fittissima. Ma qui, il
ping-pong che dilaga e sostanzia tutto il film appare strano, particolarmente aggrovigliato,
enigmatico; la partita a rimpiattino nella quale i due antagonisti si misurano
è una sofisticata e inattesa. I duellanti non si incontrano mai: il gioco del
gatto col topo avviene a distanza, con Neruda-Pollicino che nella sua
lunghissima fuga (durata tredici mesi e lunga centinaia di chilometri) semina
libri e lascia messaggi all’inseguitore e il poliziotto che lo tallona fiutando
le sue tracce quasi calamitato dal carisma del poeta (come un topo ammaliato
dal Pifferaio magico).
Il regista Pablo Larraìn abbandona deliberatamente (astutamente)
la (banale) ricostruzione biografica per immergerci in questo emozionante contrasto,
nel quale il poliziotto in cerca di riconoscimento (delle origini, del padre,
del ruolo, della fama) diventa quasi comprimario.
L’ispettore Oscar Peluchonneau (Gael garcìa Bernal), affascinato
dal temerario ardimento del poeta e forse anche dalla sua solidità esistenziale
o dalla sua popolarità, tallona la preda da vicino ma non l’azzanna, come se –
portando a compimento la sua missione – avesse timore di svuotare di
significato la propria esistenza. In certi momenti viene il sospetto che il
questurino sia quasi intento a incrementare l’epicità della fuga, invece che a interromperla,
forse inconsciamente desideroso di inserirsi nella scia leggendaria per dare –
finalmente – un senso alla sua vita di travet.
Una scelta autoriale astrusa questa (coerente con le
tormentate opere precedenti del regista, del quale ricordo Il clan, tenebroso e crudele), forse riconducibile al fatto che
Larraìn vive le contraddizioni di chi trova incomprensibili le sue radici,
provandone attrazione e repulsione.
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