venerdì 2 dicembre 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (2016)



Si tratta di un’opera prima, e si vede: c’è tutto il condensato fervore e la passione di chi ha covato a lungo la voglia (adolescenziale) di raccontare e poi ha dovuto (nella prima maturità) scontrarsi con il sistema castrante ed accettare infine (da adulto inserito) qualche compromesso nel misurarsi coi meccanismi inibitori della macchina produttiva; e non c’è invece la pretenziosità supponente o la gonfia presunzione o le certezze di Sorrentino o di Martone.
Il film, sia pure con qualche sbavatura, mantiene la genuinità di un’intuizione semplice e geniale come quella di trapiantare la storia di un supereroe in una borgata romana.

Il protagonista di questa strampalata avventura è Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), un delinquentello di periferia, introverso e solitario: non ha donne e amici; vive per strada campando di scippi e borseggi; ha perso ogni ambizione, mantiene un profilo basso, non fa parte di nessuna banda; si rintana, la notte, in un appartamentino che pare una topaia, dormendo su un divano sfondato sommerso da dvd porno e nutrendosi quasi esclusivamente di budini alla vaniglia.
La prima scena descrive un frenetico inseguimento: Enzo scappa incalzato dalla polizia (“Corri ragazzo laggiù …”), si rifugia su una chiatta sul Tevere, sta per essere beccato, s’immerge nelle acque putride del fiume, incespica sott’acqua in alcuni bidoni abbandonati contenenti sostanze radioattive, ne sfonda uno nel tentativo di riemergere, ci casca dentro, ne esce imbitumato fino alla punta dei capelli.  
Solo dopo alcuni giorni, passati tossicchiando e vomitando, scopre di essere sostanzialmente invulnerabile e di possedere una forza sovrumana. Se ne accorge per caso, quando, in compagnia di un suo vicino di casa, Sergio, si scontra con due “trasportatori” di coca (quelli che ingeriscono degli ovuli per passare i controlli): Sergio viene ammazzato; lui, ferito da un colpo di pistola, precipita dall’alto di un condominio in costruzione e si sfracella al suolo; si alza intontito, torna a casa, si medica da solo e se ne va a letto; la mattina dopo, mentre scopre con stupore che la ferita è completamente rimarginata, si ritrova fra i piedi Alessia, la figlia sciroccata di Sergio che lo frastorna con mille domande: la caccia di casa e, in un gesto di stizza, colpisce con un pugno la porta di casa e ci lascia un foro come se avesse mollato un colpo di bazooka; incredulo, per verificare la mutazione, stacca un termosifone e riesce a ripiegarlo come un origami … 
Gli eroi della Marvel, nel momento in cui si accorgono di avere dei superpoteri, pensano immediatamente alla salvezza del mondo. L’eroe de noantri resta il ladro sfigato che era e invece che dare una svolta alla sua vita usa i superpoteri per continuare a fare quel che ha sempre fatto: esce di notte per andare a sradicare a suon di pugni un bancomat e portarselo a casa; poi (scoperto che le banconote sono inutilizzabili per gli inchiostri antirapina) assalta, sempre a cazzotti, un furgone portavalori e scappa con dei borsoni pieni di banconote, ma prima di rincasare passa a comprarsi una vagonata di budini e a fare scorta di dvd porno.
Ma Alessia (Ilenia Pastorelli), la svitata che si protegge dallo squallore inaccettabile costruendosi un universo tutto suo e sognando di vivere nel micromondo dei manga, straconvinta che Enzo Ceccotti sia il giovane Hiroshi Shiba, alias Jeeg Robot (quello dal “doppio maglio perforante”), gli s’incolla addosso finché riesce a risvegliare in lui, anaffettivo e solitario, istinti di protezione dimenticati, voglie di delicatezza sepolte e perfino sete di giustizia.
La coppia sgangherata (un fallito-rassegnato con una fallita-alienata) consolida lentamente un rapporto teneramente impacciato (vedi le scene nel luna-park abbandonato); e si ritrova a dover affrontare il cattivo di turno (un fallito-incazzato), il folle Zingaro (Luca Istrione Marinelli) mezzo Joker (triste) e mezzo Michael Jackson (isterico), assetato di sangue e di notorietà (e ossessionato dall’igiene), incerto fra il sogno di diventare il re della malavita romana e quello di trionfare al “Grande fratello” (emblematica e geniale la sintesi di queste due ossessioni condensata nella scena in cui lo Zingaro si fa il selfie mentre massacra dei camorristi rivali!). Lo scontro termina in un duello titanico (smargiassone come quello fra Jeeg Robot e l’Imperatore del Drago) in cui il nostro Cecconi, invece del super-missile perforante, lancia al nemico un water estirpato dai cessi dello stadio Olimpico.

L’idea alla base del film è acutissima, la sceneggiatura è solida e regge (come accade sempre quando l’ironia fa da fondamento).
La regia è sapiente e sa districarsi bene in una commedia dissacrante che si muove fra la fantascienza (sottogenere “supereroi”) e il noir (tendenza ”romanzo criminale”), con visitazioni nel romantico e nel surreale, nel pulp e nello splatter; e raggiunge equilibri quasi perfetti fra comicità e commozioni, violenze e tenerezze.
Gli interpreti sono convinti e convincenti nella loro evoluzione (peccato che si abusi un po’ troppo, nei dialoghi, dell’intelligibilità del romanesco stretto; ma si sa, Roma è caput mundi).
La musica è tagliata su misura (compresi i brani diegetici di Anna Oxa, Loredana Berté e Nada che solleticano l’immaginario collettivo degli anni ’80).
La mancanza di effetti speciali fa la fortuna di questo film (vedrete che schifezza di remake faranno gli americani!).
Le location sono, forse inconsapevolmente, geniali: dove meglio che nella inerte malinconica Roma (diversa dalla Roma della “Grande bellezza”) e nelle lerce desolate sue borgate può essere collocata la stralunata avventura di un supereroe indolente in lotta (malgré lui) con un balordo malvagio che aspira, cantando o sparando, a forare il video?

Trapela sottotraccia (ma chiara e degna di sottolineatura) un’acuta analisi degli effetti della TV degli anni ’80 sul pubblico infantile: l’onnipresente balia virtuale ha allattato i bambini di allora – oggi quarantenni – alimentandoli con prodotti ammalianti e scadenti, passivizzanti ed epidermici; ha imbottito occhi e orecchie di immagini rutilanti e musichette sceme; ha creato una moltitudine di disadattati un po’ inadeguati nelle relazioni sociali; ha determinato fragilità e scompensi affettivi; ha prodotto insomma una generazione di insoddisfatti, più o meno consapevoli della propria immaturità. Nel film è ben rappresentata questa generazione nella prima sua mutazione genetica (quella da monoscopio, a cui seguiranno – a ondate – quella da console, da computer, da smartphone, …); e sono icasticamente descritte, nei tre personaggi principali (ugualmente emarginati e diversamente instabili) le tre differenti reazioni a questa dipendenza: la rassegnazione disillusa di Enzo, l’alienata fuga onirica della fragile Alessia e la furiosa voglia di protagonismo e di visibilità dello Zingaro.
Tre modi diversi di cercare il riscatto che esplodono nel momento del doloroso passaggio dalla infinita adolescenza alla inevitabile “maturità”, tre scappatoie inutili: visto che l’ossessione di emergere e “sfondare” è autodistruttiva, l’evasione dalla realtà è impossibile e la rivincita lascia intorno il deserto. E non basta la maschera di Jeeg Robot, fatta di lane colorate, a scaldare il cuore dell’eroe solitario chiamato a salvare il mondo.









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