Max Rosenbaum e Zev Gutman sono due decrepiti
vecchietti ospiti di una casa di riposo: portano entrambi sull’avambraccio il
marchio dei sopravvissuti di Auschwitz; entrambi coltivano il proposito di
uccidere Otto Wallisch, il Blockführer responsabile dell’uccisione dei loro
familiari, che ora si nasconde da qualche parte dell’America del nord sotto il
falso nome di Rudy Kurlander. Max, immobilizzato su una sedia a rotelle, è la
mente che escogita il piano; Zev (il lupo), che soffre di demenza senile, sarà (ovviamente)
il braccio.
Il povero Zev, dopo che è venuta a mancare la
moglie Ruth, evade dall’ospizio per compiere l’impresa. Ha con sé una borsa per
toilette zeppa di medicinali e, nella tasca della giacca, una lettera di Max
che nell’incipit è un promemoria “identitario” che lo recupera dalle sue ricorrenti
amnesie e nel prosieguo una guida che riporta le istruzioni dettagliate per condurre
a termine la missione. Nella busta vi è anche il denaro per l’acquisto di una pistola,
i biglietti aerei, le prenotazioni alberghiere e gli indirizzi dei quattro
diversi Rudy Kurlander fra i quali Zev deve individuare l’aguzzino da giustiziare.
Il viaggio si svolge in un mondo che – con
tutta evidenza – ha “dimenticato”.
E Zev, il sopravvissuto, appare incongruente:
sgualcito nelle ambientazioni linde di un paese ricco, perso lungo i tragitti
segnati dalla roadmap, refrattario alle gentilezze di chi lo soccorre nei suoi
smarrimenti, arido di emozioni e incapace di rabbie. Una scena dopo l’altra,
cresce nello spettatore il disagio e la pena per questo relitto alla deriva che
nemmeno l’Alzheimer (beata ebetudo, sola beatitudo!) riesce a salvare; e
aumenta il disappunto per i pignoli promemoria del meticoloso Max che – remember – gli impediscono di tornare
nella confortevole tana della dimenticanza.
Le stazioni di questa via crucis sono spiazzanti:
il primo dei quattro Rudy è un veterano dell’Afrikakorps di Rommel che non ha
nulla a che vedere con il mondo concentrazionario; il secondo, ormai moribondo,
è stato ad Auschwitz ma come internato omosessuale; il terzo è sì un nazista
che però nel ‘40 aveva dodici anni, ed è oltretutto morto; il quarto non è
propriamente il boia ricercato.
Lungo il tragitto Zev incappa in altri
personaggi non meno inquietanti, attraverso i quali il regista armeno-canadese
ci offre un sintetico spaccato dell’America profonda: il bottegaio che vende
una micidiale Glock a un vecchio palesemente rintronato; lo sceriffo neonazista
e alcolizzato (interpretato da Dean Norris, già agente DEA nella splendida
serie Breaking Bad); la galleria di
bambini gentili (fino all’ingenuità) che – a contrasto – sollevano un sospetto
di ambiguità nei confronti della vecchiaia (forse di per sé velenosa, forse
turpe).
L'improbabile colpo di scena finale – un vero
e proprio triplo salto mortale – avrebbe dovuto essere, nell’intenzione dello
sceneggiatore (Benjamin August), il guizzo di genialità capace di assegnare
sostanza al film e di conferire alla vicenda significati simbolici sublimi. Ma
la trovata è troppo cerebrale, troppo “studiata”: sorprende, di sicuro, ma
spiazza, sconcerta, irrita. Lo spettatore non ama le trame troppo prevedibili,
ma nemmeno accetta tanto facilmente di essere “ingannato” da capovolgimenti
artificiosi (o, in questo caso, di essere costretto a ripudiare un personaggio
col quale ha consolidato un rapporto empatico).
E poi c’è dell’altro: il macchiavellico piano
di Max (che ha la perfida faccia di Martin Landau) mette sullo
stesso livello diabolico i martiri e i carnefici, alimentando la sensazione che
non ci sia poi molta differenza fra gli assassini e le vittime che si fanno
predatori (o, addirittura, gli ex-torturatori che indossano la kippah).
Ecco. Il giudizio sulla qualità di Remember dipende da questo: se l’autore
ha congegnato lo scarto conclusivo per evitare il finale prevedibile è un
furbacchione; ma è un genio se invece ha elaborato la trama per destabilizzare
lo spettatore pigro e passivo o per mettere in crisi il conformismo filosemita,
ottuso come tutti i conformismi.
Comunque sia, bisogna riconoscere come suggestiva
l’idea singolare di aprire uno spiraglio nuovo e dischiudere prospettive insolite
sui paesaggi della memoria; e di suggerire riflessioni atipiche sul termine
“memoria”, giocando sul contrasto fra la sua accezione individuale-clinica (perdita
di memoria) e quella collettiva-storica (Memoria).
Chi cerca i mostri, pare dire Egoyan, dovrebbe
prima di tutto trovare se stesso, districandosi nei labirinti della mente. La
vendetta è inafferrabile, come la verità, del resto. E la confusione non regna
solo nella mente ingarbugliata di Zev. Il male non è laddove potrebbe apparire,
ma filtra nelle pieghe della normalità.
La mescolanza fra amnesie e rimozioni
inconsce, l’assommarsi della demenza senile a preesistenti disturbi psichici
(il connubio, in sostanza, fra Alzheimer e Freud) costituiscono comunque un
guazzabuglio un po’ troppo temerario. E il risultato è una pietanza composita e
originale, sperimentale e ambigua, sicuramente sorprendente, ma di difficile
digestione.
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