Il protagonista,
Paul Dedalus, è uno stimato antropologo che, di rientro da una permanenza per
studio in Tagikistan, viene fermato dalla polizia e sospettato di spionaggio
perché al controllo del passaporto risulta avere lo stesso nome e cognome, con
identica data di nascita e luogo, di un australiano scomparso qualche anno
prima: Paul spiega le ragioni di questa strana incongruenza e racconta al funzionario
dei servizi segreti quando e come, qualche decina di anni prima, studente in
gita scolastica, aveva ceduto i suoi documenti ad un ebreo di Minsk che voleva
emigrare in Israele.
Nel rievocare queste
lontane avventure, Dedalus dà la stura ad altri ricordi, ai trois souvenirs del titolo originale,
che sono – oltre a quello del viaggio in Unione Sovietica e dell’enigma del
passaporto – quelli infantili a Roubaix (la difficile convivenza con una madre
pazza e poi suicida, il rapporto con un amatissimo padre scialbo, depresso e
sfibrato dalla condizione familiare e con i due fratellini frastornati dal
pesante contesto) e – soprattutto – quelli adolescenziali a Parigi incentrati
sul suo amore ingarbugliato per Esther.
Due sono le cose che
rendono singolare questo film: la struttura complessa, e un po’ aggrovigliata,
e l’altrettanto ingarbugliata storia d’amore adolescenziale.
La narrazione si
sviluppa in tre flashback estremamente diversi fra loro per stile e per durata:
la storia infantile è breve e densa, cupa come un incubo o un delirio, quasi
linchiana; la spy-story sovietica è fredda (appunto) e tesa, rapida al punto da
lasciare insoddisfatti; il racconto del primo amore, quello che non si scorda
mai (e che non si sposa mai) dilaga prepotente e preponderante.
Il giovane Dedalus incontra
una giovanissima Esther, se ne innamora e innesca i suoi goffi tentativi di
conquista (Lui: “Non posso trattenermi di
mangiarti con gli occhi”. Lei: “Si,
faccio questo effetto ai ragazzi”).
Lei è inquieta e
impertinente, appassionata e volubile, inabbordabile e vulnerabile, fragile e
micidiale, facile e complicata.
Lui è un po’ impacciato
ma originale nella sua disarmante insicurezza:
goffo, confuso, ingarbugliato (come suggerisce il nome Dedalus), incapace
di orientarsi nei labirinti di emozioni contrastanti e di uscire dai grovigli
di una passione che lo intrappola. Sfrontato quel tanto che serve a camuffare il
suo profondo smarrimento che lo inibisce; incantatore con le parole e maestro
nel recitare un’esuberanza che non gli appartiene. Capace di assecondare le
pulsioni più naturali ma attento a mantenersi legato alla realtà con
l’autoironia venata di scanzonato scetticismo; imbragato all’istintiva
diffidenza (da disistima?) come a una corda di sicurezza che gli eviti cadute
disastrose dovute alle delusioni; cauto negli approcci e prudente
nell’esprimere troppo calorosamente i sentimenti (se non altro per salvarsi dal
cataclisma di delusioni o tradimenti). Parla molto per vincere la paura e scrive
lettere infinite per dichiarare a Esther (e decifrare per sé) l’intensità e la tortuosità
dei suoi sentimenti. Come il Dedalus di Joyce, il nostro si racconta per
capire, descrive i movimenti dell’anima in un flusso di coscienza quasi
spietato, sincero con se stesso a costo di perdersi, sincero con Esther a costo
di perderla.
E alla fine - povero
Paul - perde davvero la sua Esther (alla quale aveva sussurrato un giorno: “se esisti vuol dire che non sono
intrappolato in un sogno”); la perde anche per scelte sue, senza traumi. Ma
a distanza di anni urla la sua collera in faccia ad un amico, responsabile solo
in parte della rottura. Mentre le emozioni interrotte e la rabbia dei ricordi –
rabbia sempre repressa, mai espressa – lo sommergono, grida il suo inalterato
amore per Esther (“un amore intatto, un
rimpianto intatto, il furore intatto”). E l’urlo rivolto all’amico
sbigottito è anche indirizzato a sé, carico dell’irritazione che lo invade di
fronte alla certezza di aver fallito.
L’ira furibonda di
Dedalus ci colpisce nel profondo: ci commuove perché tutti coviamo il rimpianto
per un amore finito; ci devasta perché ognuno di noi sa che quel rimpianto è
avvelenato della consapevolezza della nostra inadeguatezza, dalla coscienza
lucida di aver rabberciato un’esistenza incompiuta.
-->
Nessun commento:
Posta un commento