L'astronauta
Mark Watney (Matt Damon) viene abbandonato su Marte dai suoi compagni di
equipaggio che, a causa di un’emergenza, decollano e rientrano sulla terra
credendolo morto.
Come Robinson,
naufrago su un’isola deserta, s’ingegna a sopravvivere in attesa che qualcuno
passi di lì e lo riporti a casa. E proprio come Robinson fa l’inventario di
quel che può essere utile alla sopravvivenza; trova e attrezza un rifugio (la
baracca tecnologica evacuata dai cosmonauti invece del fortino sulla collina);
s’ingegna a procurarsi cibo e acqua (coltiva patate, utilizzando come
fertilizzante le feci abbandonate dall’equipaggio sul pianeta rosso, invece di
organizzarsi un allevamento di pecore); conta i giorni che passano (segnandoli
col pennarello su un telo invece di incidere tacche su una croce); tiene un
diario (videoselfie, ovviamente, non cartaceo); lancia messaggi nella speranza
che qualcuno li intercetti; scruta l’orizzonte in attesa del passaggio, casuale
o programmato, di un vascello.
Diversamente
da Robinson, che ha un pappagallo con cui conversare, Mark parla da solo. E non
ha a disposizione un Venerdì da sfruttare e da indottrinare sui vantaggi della
Civiltà e le consolazioni della Fede.
All’inizio
le cose non procedono tanto male, ma poi qualcosa va storto (sempre per errore
umano) e Mark, il botanico costruttore di serre marziane, si ritrova davvero
nella merda.
Il pianeta
non garantisce la sopravvivenza come l’isola tropicale. Urge organizzare il
rientro. Mentre il nostro eroe si arrabatta a difendersi dalla furia delle
tempeste marziane con scotch adesivi e lenzuolate di cellofan (che, sappiamo
tutti, non regge nemmeno sul lunotto di una Panda), dalla Terra i cervelloni
della Nasa organizzano il recupero, instradati da un nerd (colored, of course,
e geniale e sregolato) che s’intrufola nel quartier generale e spiega agli
scienziati le orbite delle cucitrici.
Scott, coi
dollari messi a disposizione dai produttori hollywoodiani, costruisce una storia visivamente
spettacolare e scenograficamente sontuosa. Ma siamo distanti mille chilometri da
I duellanti, e parecchi anni luce separano questo filmetto vanitoso dai
più scarni e potenti Blade Runner e Alien.
A un certo punto ci si chiede se si assista ad un film drammatico con
concessioni al comico o a un film comico su una trama drammatica, tanto
arruffona è la commistione di scene ad alta tensione (la tempesta iniziale, per
esempio, e le operazioni – stile Gravity
– del recupero di Mark) con momenti di squallida comicità (come le insistenti battutine
idiote fra astronauti in crisi di isolamento e il socio che rischia la
mummificazione). Troppi sono i passaggi incongruenti (lo scotch che serve sia a
sigillare la serra che a riparare il casco spaziale o il telo che sostituisce
la calotta di un veicolo spaziale lanciato in orbita). Sconcertanti appaiono i dialoghi
insensati (“Se non ci senti, punta la
camera sul cartello con la scritta NO”, dice lo scienziato addetto alle
comunicazioni). Di “coerenza” tutta americana appare il linguaggio scurrile
usato nelle comunicazioni interplanetarie che vorrebbe scanzonare il clima retorico
da patriottismo stile “pioniere della grande frontiera” e il tifo da stadio che
aleggia nella sala comando. Altrettanto sconcertante è l’atmosfera di generale
ottimismo idiota (e poi ridono di Fonzie) che accompagna lo svolgersi di una
tragedia. Alcuni siparietti risultano desolanti (come
quello reiterato delle battute sceme sui gusti musicali della capitana, o
quello finale col nostro eroe impegnato a fare il simpaticone in una classe di citrulloni
aspiranti-astronauti). Per non parlare degli inserti politically ruffiani, come
quello che vede l’Agenzia Spaziale Cinese impegnata a salvare il soldato Ryan
di turno (gran mercato, la Cina!).
Che dire poi della scena in cui uno dei
responsabili della missione ha la folgorazione in mensa e la spiega ai compagni
scarabocchiando un poster staccato dalla parete? e delle soluzioni
“scientifiche” irresistibili (come quella del “botanico a reazione” col buco
nella tuta, già brevettata dal cinema di animazione)? e delle riprese della
missione di salvataggio mandate in diretta sui megaschermi nelle piazze del
mondo?
Imperdonabile
il nostro Ridley – un mito che declina – che ha accettato di fare un film nato
vecchio, senza nessun sussulto che spiazzi, nessuna emozione che interrompa il
piattume. Un film che sviluppa (si fa
per dire) una storia senza nemmeno un cattivo. Con scene clou che spaventano
solo chi soffre di mal d’aria o di vertigine. Costruito attorno a una vicenda fiacca
e prevedibile (il titolo italiano – “il sopravvissuto” – è una spoilerata di
un’ingenuità vicina all’idiozia), dalla trama scontata al punto che fin dalle
prime scene s’indovina come andrà a finire (“riusciranno i nostri eroi …”) e a metà
film ci si rassegna a non sperare nell’impennata di genio.
Siamo di
fronte a un film che mette al centro della storia un unico personaggio (gli
altri, tutti, sono comparse stereotipate di contorno) e non si cura di
costruirgli sopra una biografia minima, di dargli un passato, di assegnargli
relazioni affettive, di indagare sulle sue inevitabili paure, di assegnargli un
qualunque spessore psicologico.
Da un blockbuster d'intrattenimento
ci si può aspettare di tutto, ma è temerario pretendere che il povero
Damon – udite, udite – tenti di far ridere (cosa che invece riesce benissimo al
suo truccatore).
La scelta
di Demon sarà pure indovinata: quando c’è qualcuno da salvare, Hollywood va sul
sicuro. Ma oltre a Demon, chi altro si salva in questo film: forse i paesaggi mozzafiato che lasciano impietriti?
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