venerdì 2 dicembre 2016

The Tribe (2014) di Myroslav Slaboshpytskkiy



Ho visto questo film con un gruppo di amici che, senza eccezioni, mi hanno vituperato per averli invitati. La loro protesta si è focalizzata soprattutto contro il fatto che il film è muto, ostinatamente muto, e contro alcune incomprensibili scelte registiche che, a loro dire, appesantiscono insopportabilmente la visione.  
Con alcune considerazioni in ordine sparso respingerò schematicamente le loro critiche, facendo trapelare le ragioni per cui considero quest’opera degna di occupare un suo posto nella storia del cinema.

Si tratta di un film muto:
1.    Il regista racconta la storia di un gruppo di ragazzi sordomuti relegati in un istituto di rieducazione ucraino; fra di loro i ragazzi non usano la parola ma comunicano solo col linguaggio dei gesti e, ancora di più, col linguaggio dei corpi (violenza, prevaricazione, confronto fisico per la supremazia, sessualità intesa come confronto o scontro fisico, solidarietà finalizzata solo a rafforzare il potere, alleanze cercate solo per costituire o consolidare il branco).
2.    Le parole sono superflue in un mondo governato dalla prevaricazione spietata dove quello che conta è l’azione, il rumore sordo dei pugni presi, dei gemiti soffocati, di passi minacciosi, dei respiri affaticati, degli alterchi strozzati.  
3.    I ragazzi non comunicano con il mondo che li circonda perché, oltre che muti, sono emarginati: vivono relegati in un’istituzione totale e i contatti che intrattengono sono quelli istituzionali, i bisogni di comunicazione sono circoscritti e regolamentati, i rapporti con l’esterno non sono ammessi e nemmeno cercati.
4.    I ragazzi non comunicano con noi spettatori: non abbiamo voglia di ascoltarli (siamo audiolesi dentro), non siamo in grado di comprenderli, non abbiamo l’intelligenza di capirli; li osserviamo come pesci in un acquario, come insetti in una teca, come rettili in un terrario. Felici che il loro mondo sia nella finzione, forse irreale e inesistente. Infastiditi dalla semplice rappresentazione letteraria di questo intollerabile immondezzaio. Disorientati nel provare ribrezzo verso ragazzi che, nel sentire comune, sono oggetto di compassione per i loro handicap. Angosciati nello sperimentare la nostra incapacità a comprendere. Disorientati dal sentirci – noi come loro, più di loro – alieni, anormali, collocati nella disperante condizione di esclusi.
5.    La sordità e il mutismo sono metafora dei rapporti sociali di un mondo immerso nelle occasioni di contatto ma sommerso dalla incapacità di comunicazione (l’ipertrofia dell’informazione provoca l’atrofia della comunicazione).
6.    La parola ha connotazioni sacre, è principio della razionalità, strumento di socialità, deposito di memoria, nucleo di autoconsapevolezza. Il branco e gli individui che lo compongono vivono di materialità pagana, non hanno riferimenti logici e principi etici, non conoscono la carità e la compassione, non hanno storia, cancellano la memoria, non hanno speranza per il futuro, non hanno coscienza.
7.    Il dolore non ha parole, è indescrivibile, ammutolisce chi lo soffre, paralizza chi lo incontra.
8.    Non vi è nulla di più assordante del silenzio. 
9.    Non è vero che nel film non ci sono voci. Nella scena dell’aborto, della tortura dell’aborto, la ragazza emette gemiti afoni. Laceranti per noi che non vorremmo né vedere, né sentire.   

Si tratta di un film sperimentale:
a.    L’assenza di parlato, giustificata dai motivi di cui si è detto, è anche (forse soprattutto) esibita come scelta volontaria registica tesa a sottolineare l’assoluta efficacia dell’immagine che nel cinema deve essere esplicita, sufficientemente chiara, decifrabile al punto da rendere superflua la parola. Il cinema è un racconto per immagini fatto di inquadrature (parole), scene (frasi) e sequenze (sintassi). I dialoghi sono una scorciatoia comoda per chi non sa far “vedere” gli stati d’animo e i sentimenti; e la voce fuori campo (voice-over) è la risorsa obbrobriosa degli incapaci.  Un’opera, un edificio, una scultura, un’installazione, un quadro, una buona fotografia non hanno bisogno di didascalie. Se sono arte, mandano segnali propri. Lo spazio dato alla verbosità è direttamente proporzionale all’inefficacia iconica.  
b.    La crudezza realistica non concede tregua, è intollerabile.
Ma forse il motivo profondo sella sua insostenibilità sta nel fatto che sottolinea con eccessiva efficacia la distanza fra noi e loro, fra il nostro tranquillo equilibrio di benpensanti e aspra condizione di malnati di questi ragazzi che potrebbero essere nostri figli, fra le nostre fragili sicurezze e le loro solide disperazioni. La crudezza sgradevole delle violenze, dei rapporti sessuali, dell’aborto, … ci inchioda alla nostra colpevole voglia di non vedere, di voltare le spalle, di proteggere sotto una cappa di vetro le nostre tranquille abitudini rassicuranti. È naturale, ma nello stesso mostruosamente egoistico, il desiderio di allontanare da noi la fastidiosa sensazione (fondata) di essere responsabili diretti delle realtà crudeli che imperversano in molte parti del mondo (fortunatamente lontane dai nostri occhi, se non c’è qualche Myroslav che ce le sbatte in faccia).
c.     L’insistente uso di piani sequenza è estenuante.
Noi siamo abituati ad un cinema che abusa della principale regola del linguaggio cinematografico basato sull’elisse per cui si tagliano azioni sottintese: amiamo i riassunti, cerchiamo le climax (i punti di tensione, gli apici narrativi), vogliamo essere incalzati dallo svolgersi delle azioni, dagli sviluppi essenziali della vicenda. Qui invece siamo sommersi dalle inutilità, dai tempi morti; assistiamo infastiditi alla rappresentazione dell’inconcludenza; siamo risucchiati nel nulla, nel vuoto. La nostra irritazione è la misura della genialità di questo giovane regista (quarantenne) dal nome impronunciabile (per scrivere il quale è necessario ricorrere al copia-incolla). 
La prolissità della descrizione della festa iniziale di inaugurazione dell’anno scolastico ci racconta di un mondo normale e di rapporti calorosi (discorsi di rito, applausi, offerta di fiori) prima di rivelare il desolante universo anaffettivo dell’istituto; la snervante insistenza con cui ci vengono mostrati i rapporti sessuali ci riferisce l’incapacità di amare, l’ignoranza della dolcezza, la deprivazione sentimentale, l’anaffettività, l’analfabetismo erotico, la riduzione a condizioni bestiali (con i rapporti tristi, fra bellissimi corpi, consumati sul grigio cemento di un sudicio magazzino); le riprese estenuanti di lunghe scene irrilevanti (il bussare ai finestrini dei camionisti, la lenta salita di sei rampe di scale, la ripresa dell’espletamento di una pratica burocratica per il passaporto) offre la misura della monotonia della vita vuota, della inutilità dello scorrere del tempo, del deserto che occupa le menti, della deriva che trascina queste infelici anime.
d.    La quasi totale assenza di primi piani, apparentemente giustificata dalla necessità di mostrare la gestualità, è sostanzialmente motivata dal fatto che il primo piano mostra gli occhi e apre una finestra sull’anima; e qui, oltre la finestra, vi sono gli abissi dell’inesistenza e il niente.
e.    La macchina da presa rincorre affannata l’azione che si sviluppa ignorando l’operatore. Il regista non costruisce la scena a favore di macchina, non ha cioè il diffuso e insopprimibile vizio di inquadrare posizionandosi sulla tradizionale terza parete di teatrale memoria.
f.      L’assenza di luce, la desolazione dei luoghi (dell’istituto, del parcheggio), il gelo delle notti crude e delle livide giornate, lo squallore degli interni (corridoi, scale, camerette) mettono gli spettatori in una condizione di disagio fisico, di angoscia d’abbandono. Le pareti scrostate del cesso in cui la mammana indifferente pratica l’aborto sono la perfetta rappresentazione sia del nostro strazio che del nostro deterioramento.
g.    I registi tutti conoscono i meccanismi del successo e coccolano i loro spettatori assecondando i gusti, soddisfacendo le aspettative del pubblico, concedendosi con quella dose di ruffianeria che garantisce il successo. Myroslav Slaboshpytskkiy non concede nulla, non ammicca, va dritto alla sostanza, non permette empatie. E questo non costituisce demerito.
h.    Noi tutti siamo abituati a leggere i film (ma non solo quelli) con la pancia o col cervello: con la pancia li gustiamo, col cervello decifriamo i messaggi veicolati. Questo film è incomprensibile per i nostri stomaci e indigesto per i nostri cervelli. Ma ha fascino, se per fascino si intende – vedi il Treccani – un insieme indistricabile di seduzione e maleficio.









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