Ho visto questo film con un gruppo di amici
che, senza eccezioni, mi hanno vituperato per averli invitati. La loro protesta
si è focalizzata soprattutto contro il fatto che il film è muto, ostinatamente
muto, e contro alcune incomprensibili scelte registiche che, a loro dire,
appesantiscono insopportabilmente la visione.
Con
alcune considerazioni in ordine sparso respingerò schematicamente le loro
critiche, facendo trapelare le ragioni per cui considero quest’opera degna di occupare
un suo posto nella storia del cinema.
Si
tratta di un film muto:
1. Il regista racconta
la storia di un gruppo di ragazzi sordomuti relegati in un istituto di
rieducazione ucraino; fra di loro i ragazzi non usano la parola ma comunicano
solo col linguaggio dei gesti e, ancora di più, col linguaggio dei corpi
(violenza, prevaricazione, confronto fisico per la supremazia, sessualità
intesa come confronto o scontro fisico, solidarietà finalizzata solo a rafforzare
il potere, alleanze cercate solo per costituire o consolidare il branco).
2. Le parole sono
superflue in un mondo governato dalla prevaricazione spietata dove quello che
conta è l’azione, il rumore sordo dei pugni presi, dei gemiti soffocati, di
passi minacciosi, dei respiri affaticati, degli alterchi strozzati.
3. I ragazzi non
comunicano con il mondo che li circonda perché, oltre che muti, sono emarginati:
vivono relegati in un’istituzione totale e i contatti che intrattengono sono
quelli istituzionali, i bisogni di comunicazione sono circoscritti e
regolamentati, i rapporti con l’esterno non sono ammessi e nemmeno cercati.
4. I ragazzi non
comunicano con noi spettatori: non abbiamo voglia di ascoltarli (siamo
audiolesi dentro), non siamo in grado di comprenderli, non abbiamo l’intelligenza
di capirli; li osserviamo come pesci in un acquario, come insetti in una teca,
come rettili in un terrario. Felici che il loro mondo sia nella finzione, forse
irreale e inesistente. Infastiditi dalla semplice rappresentazione letteraria
di questo intollerabile immondezzaio. Disorientati nel provare ribrezzo verso
ragazzi che, nel sentire comune, sono oggetto di compassione per i loro
handicap. Angosciati nello sperimentare la nostra incapacità a comprendere.
Disorientati dal sentirci – noi come loro, più di loro – alieni, anormali, collocati
nella disperante condizione di esclusi.
5. La sordità e il
mutismo sono metafora dei rapporti sociali di un mondo immerso nelle occasioni
di contatto ma sommerso dalla incapacità di comunicazione (l’ipertrofia
dell’informazione provoca l’atrofia della comunicazione).
6. La parola ha
connotazioni sacre, è principio della razionalità, strumento di socialità,
deposito di memoria, nucleo di autoconsapevolezza. Il branco e gli individui
che lo compongono vivono di materialità pagana, non hanno riferimenti logici e
principi etici, non conoscono la carità e la compassione, non hanno storia,
cancellano la memoria, non hanno speranza per il futuro, non hanno coscienza.
7. Il dolore non ha
parole, è indescrivibile, ammutolisce chi lo soffre, paralizza chi lo incontra.
8. Non vi è nulla di
più assordante del silenzio.
9. Non è vero che nel
film non ci sono voci. Nella scena dell’aborto, della tortura dell’aborto, la
ragazza emette gemiti afoni. Laceranti per noi che non vorremmo né vedere, né
sentire.
Si
tratta di un film sperimentale:
a. L’assenza di parlato,
giustificata dai motivi di cui si è detto, è anche (forse soprattutto) esibita
come scelta volontaria registica tesa a sottolineare l’assoluta efficacia dell’immagine
che nel cinema deve essere esplicita, sufficientemente chiara, decifrabile al
punto da rendere superflua la parola. Il cinema è un racconto per immagini
fatto di inquadrature (parole), scene (frasi) e sequenze (sintassi). I dialoghi
sono una scorciatoia comoda per chi non sa far “vedere” gli stati d’animo e i
sentimenti; e la voce fuori campo (voice-over) è la risorsa obbrobriosa degli
incapaci. Un’opera, un edificio, una
scultura, un’installazione, un quadro, una buona fotografia non hanno bisogno
di didascalie. Se sono arte, mandano segnali propri. Lo spazio dato alla verbosità
è direttamente proporzionale all’inefficacia iconica.
b. La crudezza
realistica non concede tregua, è intollerabile.
Ma forse il motivo
profondo sella sua insostenibilità sta nel fatto che sottolinea con eccessiva
efficacia la distanza fra noi e loro, fra il nostro tranquillo equilibrio di
benpensanti e aspra condizione di malnati di questi ragazzi che potrebbero
essere nostri figli, fra le nostre fragili sicurezze e le loro solide
disperazioni. La crudezza sgradevole delle violenze, dei rapporti sessuali,
dell’aborto, … ci inchioda alla nostra colpevole voglia di non vedere, di
voltare le spalle, di proteggere sotto una cappa di vetro le nostre tranquille
abitudini rassicuranti. È naturale, ma nello stesso mostruosamente egoistico,
il desiderio di allontanare da noi la fastidiosa sensazione (fondata) di essere
responsabili diretti delle realtà crudeli che imperversano in molte parti del
mondo (fortunatamente lontane dai nostri occhi, se non c’è qualche Myroslav
che ce le sbatte in faccia).
c. L’insistente uso di
piani sequenza è estenuante.
Noi siamo abituati
ad un cinema che abusa della principale regola del linguaggio cinematografico
basato sull’elisse per cui si tagliano azioni sottintese: amiamo i riassunti,
cerchiamo le climax (i punti di tensione, gli apici narrativi), vogliamo essere
incalzati dallo svolgersi delle azioni, dagli sviluppi essenziali della
vicenda. Qui invece siamo sommersi dalle inutilità, dai tempi morti; assistiamo
infastiditi alla rappresentazione dell’inconcludenza; siamo risucchiati nel
nulla, nel vuoto. La nostra irritazione è la misura della genialità di questo
giovane regista (quarantenne) dal nome impronunciabile (per scrivere il quale è
necessario ricorrere al copia-incolla).
La prolissità della
descrizione della festa iniziale di inaugurazione dell’anno scolastico ci
racconta di un mondo normale e di rapporti calorosi (discorsi di rito,
applausi, offerta di fiori) prima di rivelare il desolante universo anaffettivo
dell’istituto; la snervante insistenza con cui ci vengono mostrati i rapporti
sessuali ci riferisce l’incapacità di amare, l’ignoranza della dolcezza, la
deprivazione sentimentale, l’anaffettività, l’analfabetismo erotico, la
riduzione a condizioni bestiali (con i rapporti tristi, fra bellissimi corpi, consumati
sul grigio cemento di un sudicio magazzino); le riprese estenuanti di lunghe
scene irrilevanti (il bussare ai finestrini dei camionisti, la lenta salita di
sei rampe di scale, la ripresa dell’espletamento di una pratica burocratica per
il passaporto) offre la misura della monotonia della vita vuota, della
inutilità dello scorrere del tempo, del deserto che occupa le menti, della
deriva che trascina queste infelici anime.
d. La quasi totale
assenza di primi piani, apparentemente giustificata dalla necessità di mostrare
la gestualità, è sostanzialmente motivata dal fatto che il primo piano mostra
gli occhi e apre una finestra sull’anima; e qui, oltre la finestra, vi sono gli
abissi dell’inesistenza e il niente.
e. La macchina da presa
rincorre affannata l’azione che si sviluppa ignorando l’operatore. Il regista
non costruisce la scena a favore di macchina, non ha cioè il diffuso e
insopprimibile vizio di inquadrare posizionandosi sulla tradizionale terza
parete di teatrale memoria.
f. L’assenza di luce,
la desolazione dei luoghi (dell’istituto, del parcheggio), il gelo delle notti
crude e delle livide giornate, lo squallore degli interni (corridoi, scale,
camerette) mettono gli spettatori in una condizione di disagio fisico, di
angoscia d’abbandono. Le pareti scrostate del cesso in cui la mammana
indifferente pratica l’aborto sono la perfetta rappresentazione sia del nostro
strazio che del nostro deterioramento.
g. I registi tutti
conoscono i meccanismi del successo e coccolano i loro spettatori assecondando
i gusti, soddisfacendo le aspettative del pubblico, concedendosi con quella
dose di ruffianeria che garantisce il successo. Myroslav
Slaboshpytskkiy non concede nulla, non ammicca, va dritto alla sostanza, non
permette empatie. E questo non costituisce demerito.
h. Noi tutti siamo
abituati a leggere i film (ma non solo quelli) con la pancia o col cervello:
con la pancia li gustiamo, col cervello decifriamo i messaggi veicolati. Questo
film è incomprensibile per i nostri stomaci e indigesto per i nostri cervelli. Ma
ha fascino, se per fascino si intende – vedi il Treccani – un insieme indistricabile di seduzione e maleficio.
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