martedì 12 gennaio 2010

Dieci inverni di Valerio Mieli (2009)

Per ben dieci inverni Camilla e Silvestro, diciottenni alla data del primo incontro, si cercano ma non si trovano, si guardano ma non si vedono, si incrociano ma non si incontrano tra Venezia e Mosca: nelle brume della laguna, malinconiche come la loro non-storia, e nel freddo di Mosca, rigido come la loro difficoltà a sciogliersi. Si annusano e indugiano titubanti, si sbirciano inibiti, si provocano esitanti, si stuzzicano irresoluti e non riescono a fare “quel piccolo gesto” che innescherebbe gli automatismi dell’amore. Quando uno dei due cerca di rompere il diaframma di carta che li separa, l’altro non capisce, tentenna, non riesce ad incoraggiare, resiste per orgoglio o nicchia per pigrizia o fugge per insicurezza. Fra i due c’è sempre comunque una sfasatura, una diacronia, una disarmonia, una asimmetria, uno squilibrio.
Per sostenere l’assioma dell’incomunicabilità però la storia appare, qua e là, un po’ forzata e non sempre convincente; a tratti diventa irritante e comunque risulta troppo lunga (ma forse uno degli intenti del regista è proprio quello di “infastidire” ed esasperare). Anche il finale appare, purtroppo, poco convincente. Una storia antiromantica che così bene illustra l’indeterminatezza dei sentimenti e la difficoltà a lasciarsi andare senza pudore non dovrebbe assolutamente avere il lieto fine. Il film sarebbe stato perfetto se fossero comparsi i titoli di coda sul mancato incontro nella grande e desolante piazza di Venezia, su quella splendida inquadratura dall’alto dell’abside (campo lungo geniale!) con lo sfondo musicale dello stridente e struggente Capossela.

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