sabato 2 gennaio 2010

SESSANTOTTO E DINTORNI (23): Rose Rosetta

Nell’estate del 1969, qualche giorno dopo l’allunaggio di Armstrong e Aldrin, decisi di fare un viaggio solitario in autostop e di lasciar perdere i campi di lavoro, che mi procuravano è vero un viaggio gratuito d’andata e di ritorno per un paese straniero ma, in definitiva, mi lasciavano poco tempo per visitarlo. L’esperienza mi aveva insegnato che con pochi soldi e poche pretese era possibile andare in capo al mondo; che in nessuna occasione si correva il rischio di morire di fame; che nelle notti d’estate era possibile dormire ovunque; che le strade erano piene di gente simpatica; che nel mese di luglio le strade d’Europa brulicavano di autostoppisti,…
Riuscii a racimolare qualche lira vendendo ad un bancarellista un pacco di libri, acquistai al mercatino di via Milano uno zaino militare usato e sformato, un sacco a pelo nuovo e una borraccia di alluminio foderata di iuta, infilai nello zaino quattro stracci, due mappe, un coltello a serramanico e partii.
Ero incerto su quale direzione prendere. Perciò mi misi sulla strada di accesso ai caselli autostradali di Brescia ovest e decisi di lasciar decidere al fato e andare dove mi avrebbe portato il primo automobilista gentile. Si fermò un camion diretto a Udine: decisi che la mia prima meta sarebbe stata Venezia.

Verso sera arrivai stravolto dal caldo e dalla stanchezza al graziosissimo ostello sulla Giudecca.
Doccia, cena alla mensa, passeggiata breve fuori dall’uscio, quattro chiacchiere con un gruppo di ragazzi di Caserta.
Nel cortile alcuni ospiti si erano seduti in cerchio attorno a due che suonavano la chitarra. Mi accodai restando a discreta distanza, un po’ defilato. I chitarristi dovevano essere inglesi o americani. La chitarra passando di mano arrivò ad una ragazza di Roma che strimpellò qualche motivetto nazionale, accompagnata dal gruppo di italiani e applaudita da tutti. Poi fu la volta di una coppia francese. Poi di alcuni nordici, olandesi o tedeschi.
Poiché la stanchezza si faceva sentire tentai di sdraiarmi sul fresco lastricato e andai a sbattere con la testa sulle ginocchia di una ragazza che, silenziosa, si era seduta dietro di me. Mi scostai confuso. Mi sorrise e mi invitò, a segni, a non farmi problemi, ad appoggiarmi tranquillamente. A segni le dissi no grazie. A segni insistette. Rifiutai decisamente. Sorrise. Sorrisi. Ci presentammo. Si chiamava Rose. Cominciammo a chiacchierare. In francese.
Era una canadese del Quebec, era a Venezia con i suoi genitori che alloggiavano in un albergo. Lei dormiva all’ostello per risparmiare. Mi raccontò del suo viaggio, poi dei suoi studi, poi della sua vita e dei suoi passatempi, delle sue letture e delle sue musiche, degli amici e della sua città, …
Io le raccontai dei miei viaggi più modesti (ma ascoltò incantata il racconto delle mie esperienze nei campi di lavoro), poi dei miei studi, poi della mia vita e dei miei passatempi, delle mie letture, degli amici,…
Volle sapere il mio programma per il giorno dopo. Dissi che non avevo programmi. Mi chiese se potevamo concordare qualcosa, insieme, qualsiasi cosa, perché lei - mi disse - non aveva voglia di passare due giorni a Venezia in compagnia dei suoi genitori. Le dissi scherzando che non mi andava di essere usato come ripiego per due giornate noiose. Mi disse che voleva stare con me perché le piaceva l’idea di visitare Venezia in compagnia di un italiano. Le dissi scherzando che non mi andava di essere sfruttato come guida senza ricompense. Mi disse che voleva stare con me perché mi aveva osservato da dietro per una mezz’ora e le piaceva la mia riservatezza, il mio starmene in disparte, la mia malinconia, simile alla sua. Le dissi che, per quelle ragioni, potevo sacrificarmi, a condizione che, per equità, si lasciasse osservare da dietro per mezz’ora. Così come lei aveva spiato me. Ci scambiammo di posto, si sedette davanti a me, e si girò a guardarmi con un’aria perplessa.
Le sorrisi e la invitai, a segni, a non farsi problemi, a sdraiarsi, ad appoggiare tranquillamente la sua testa sulle mie ginocchia. A segni lei disse no grazie. A segni insistetti. Rifiutò decisamente. Sorrise. Sorrisi. Si sdraiò. Mi sbirciò dal basso. Le diedi un buffetto sul naso. Mi scostò la mano ma la trattenne nella sua. Fra le mani passò un fremito leggero. Con l’altra mano con un dito, le accarezzai delicatamente la fronte ed i capelli.
Quella sera fummo gli ultimi a lasciare la sala comune.
La mattina dopo fummo i primi a presentarci a colazione.
La giornata era splendida: mettemmo in programma l’itinerario più banale, quello che seguono i turisti che per la prima volta visitano Venezia. Mi seguiva come un cagnolino, felice di quel che le mostravo, felice delle mie dotte annotazioni, felice di tutto. Io la guidavo felice della sua felicità.
Verso le tre del pomeriggio la condussi per calli e ponticelli in un Campo fuori degli itinerari turistici, acquistai pane da un fornaio, mortadella da un salumiere e uva bianca da un fruttivendolo. Mangiammo con gusto sul gradino di un pozzo, bevemmo acqua insipida da una fontana, finimmo il pranzo con un bicchiere di rosso fuori da una superstite osteria.
Poi, mano nella mano, caldi del vino e della reciproca attrazione, girovagammo senza meta e senza orientamento in un labirinto di viuzze quasi deserte, godendo del sole, del contatto, delle vecchie pietre, dell’incanto, dell’acqua, della solitudine, degli odori, della sintonia, delle voci, del nostro smarrimento.
La chiamavo Rosetta, e lei era felice.
Ritornammo al nostro ostello per l’ora di cena, cenammo insieme, uno di fronte all’altra per guardarci in faccia, scambiammo assaggi delle nostre diverse portate, tornammo nella sala comune e ci sedemmo nel nostro angolo, stavolta affiancati, ancora ad ascoltare canzoni ed a sentire il confuso chiacchiericcio, babele di lingue, di ragazzi e ragazze evidentemente stanchi, evidentemente appagati. Comunicando fra noi con poche parole bisbigliate, con molti sguardi e sorrisi, col tenerci le mani, assaporando la dolcezza che impregna i rari momenti magici della vita.

Il giorno dopo ci imbarcammo per Murano. Sul battello, attraversando la laguna, ci mettemmo a prua: si aggrappò al parapetto, chiuse gli occhi e li tenne chiusi, quasi dimenticandosi di non esser sola, quasi ignorandomi: la osservai a lungo mentre con il viso proteso ascoltava il calore del sole, respirava la brezza leggera e annusava la salsedine; muoveva leggermente la bocca, come per bisbigliare parole, come per recitare preghiere o poesie. Svolgeva nella mente un lungo discorso indecifrabile e lo portava a fior di labbra, senza pause; seguiva e traduceva un ragionamento felice, che affiorava in un’espressione beata e sorridente. Senza aprire gli occhi mi cercò la mano, bisbigliò il mio nome e proseguì nel suo sussurro magico. Se avessi baciato, come desiderai, quelle piccole labbra che mormoravano pensieri soavi, avrei rotto un incantesimo.
La visita agli artigiani del vetro fu deliziosa. Rose Rosetta Rosette era piena di meraviglia e non voleva più distaccarsi dal bancone del piccolo laboratorio dietro cui due vetrai si esibivano per i turisti: il primo, un anziano, costruendo boccette panciute col soffio e l’altro, un ragazzetto spiritoso, modellando la pasta di vetro coi movimenti spavaldi di una pinzetta di ferro per ricavarne dei bizzarri cavallini rampanti.
Fuori c’era un bel sole abbacinante. Passeggiammo lungo una via piena di botteghe artigiane, negozietti, bazar. Per staccare Rose dalle vetrinette strapiene di gingilli di vetro e per uscire dalla folla ci infilammo in un vicolo ombroso, stretto fra alti muri su cui si affacciavano piccole porte chiuse e finestrelle. In fondo si vedeva un bagliore forte e riverberi di acque chiare. Il percorso era ingombro di cassette di frutta, secchi di immondizia, ceste, reti, detriti, catini e remi. Il vicolo finiva in una piccola cala: la riva era letteralmente coperta di frammenti di vetro colorato, schegge di cristallo, cocci lucidi, frantumi di soprammobili, statuette mutilate, cannucce e palline di vetro, tazze rotte, paralumi scassati, torciglioni multicolori, pomoli incrinati, vasi screpolati, pezzi variopinti di maniglie, posacenere, cofanetti, pressacarte, pendenti, scacchiere, bomboniere,…
Camminando con circospezione sui detriti arrivammo sulla battigia. I caleidoscopici rifiuti ricoprivano anche il fondo del mare. Eravamo casualmente capitati nella discarica degli artigiani del vetro.
“È così fino a Ravenna” dissi. E Rose assentì convinta. “Siamo nella Baia dei Cristalli” dissi. E Rose annuì. Poi si accucciò e cominciò a scegliere con incertezza i suoi piccoli souvenir. La imitai. Come due bambini ci mostravamo i reciproci reperti in un susseguirsi di sorprese, esclamazioni, stupori. Riempimmo due borse di piccole, preziosissime meraviglie. Non riuscivamo a distaccarci da quell’Eldorado abbandonato.
Tornammo sui nostri passi, attraverso il vicolo maleodorante, e rientrammo nel flusso dei turisti. Ripassammo davanti alle vetrinette sbirciando i piccoli oggetti che non avevamo potuto acquistare, stringendo i sacchetti pieni dei nostri tesori nascosti.
Sul battello rifacemmo l’inventario.
Tra i miei frammenti trovai un piccolo corno a torciglione, dorato, che doveva essere l’attributo magico di un liocorno. Lo regalai a Rosetta, dicendole che il liocorno o unicorno era un cavallo bianco con un corno in fronte e la coda da leone; che era un animale mitologico e magico, dotato di virtù taumaturgiche; che era simbolo di saggezza e poteva essere ammansito solo da una vergine, simbolo di purezza (Rosetta sorrise); le raccontai che nella tradizione medioevale il corno a spirale aveva la capacità di neutralizzare i veleni. Le dissi di tenerlo come portafortuna, in mio ricordo. Prese il piccolo corno, lo rimirò, lo annusò, lo baciò e se lo mise in tasca, separato dagli altri reperti. Poi frugò nella sua borsa, ne trasse titubante una goccia sfaccettata di cristallo, la strofinò sulla maglietta fino a farla brillare, me la mise in mano e mi disse di tenerla cara come la nostra limpidissima amicizia.

Eravamo a San Marco, s’era fatto tardi. Rosetta aveva un appuntamento in albergo coi genitori: dovevano partire per Firenze col treno della notte. Era ora di salutarci. Lei prendeva il vaporetto per S. Lucia, io - dallo stesso imbarcadero - me ne tornavo a Giudecca. Era ora di salutarci. Arrivò il suo vaporetto, fummo presi dal panico. Decise di aspettare quello successivo. Era ora di salutarci. Nel frattempo arrivò il mio. "Prendo il prossimo" dissi; io non avevo fretta. Ci guardavamo e non sapevamo cosa dirci. Negli occhi avevamo pensieri teneri, ma non c’erano parole per dirli. Gli addii hanno sempre in sé qualcosa di patetico: i discorsi che li esprimono hanno sempre qualcosa di sbagliato. Era ora di salutarci, non c’era rimedio. Arrivò il suo vaporetto, poi il mio, poi il suo. Nessuno di noi voleva lasciare l’altro: lei spingeva me, e poi mi tratteneva; io spingevo lei, e poi la trattenevo. Non volevo proprio vederla partire, restandomene sulla riva a sventolare la mano. Non volevo vederla restare a terra, allontanandomi io sull’acqua. Era in ritardo ma non si risolveva. Decidemmo che sarebbe stato definitivo, mio o suo, il primo vaporetto che fosse passato dopo le sette. Ci restavano quattro minuti: insufficienti per contenere le nostre vorticose emozioni, troppi per contenere le nostre convulse pene.

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