domenica 24 gennaio 2010

Lettere da Ivo Jima di Clint Eastwood (2006)

Film asciutto, efficace, pulito, essenziale: ancora una volta Eastwood si dimostra capace di raccontare la guerra senza retoriche, di celebrare la pace senza proclami antimilitaristi e senza appelli alla fratellanza, di trattare emozioni evitando banalità, di mandare messaggi forti con voce sommessa.
Particolare e coraggiosa è prima di tutto l’idea di porsi dal punto di vista del “nemico” e di rimarcare questa prospettiva facendo recitare gli attori in giapponese, coi sottotitoli.
Straordinario poi è l’equilibrio che Eastwood mette nel descrivere con uguale compassione il furore del fanatico e la paura del disertore, lo spirito di “immolazione” e l’istinto di sopravvivenza; e straordinario è il senso della misura che gli consente, senza incoerenza, di assegnare uguale dignità al senso dell’onore e all’orrore, di rappresentare con pari efficacia la voglia di morire e quella di vivere; di alternare scene di ferocia cruda con scene di struggente tenerezza; di trovare efficacia nel suscitare pietà senza cadere nel pietismo. Eastwood abbraccia con identico affetto e con sincerità le certezze del grande generale e le incertezze del piccolo fornaio, rispetta la scelta di morire del primo e la tenace voglia di tornare a casa del secondo.
Ci dice che la dignità, come del resto la stupidità, non ha bandiere; che è “onorevole” fare quello che detta la coscienza o il cuore, con tutte le sue contraddizioni; che negli occhi di un nemico è possibile specchiarsi; che le donne sanno veder più vicino ma anche più lontano …
La sceneggiatura è scarna, la regia è accurata ma non invadente, i colori denaturati creano atmosfere livide, l’ambientazione è angosciante, gli esterni (sull’arida isola) sono inquietanti, gli interni (nelle caverne e nei camminamenti) sono oppressivi e claustrofobici ed evocano nello stesso tempo la sepoltura e, nella loro provvisoria sicurezza, la protezione del ventre materno.
L’orgoglio nipponico in quegli antri è compresso, dolente, soffocato, tragico. Nulla è più desolante e disperato del “banzai” che vi echeggia, l’urlo di guerra e di morte che i soldati – morti che camminano – lanciano prima di morire, dopo aver ripiegato nello zaino la loro ultima lettera a casa, piena di nostalgia, di tenerezza e di rimpianti.

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