lunedì 30 novembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (17): autostop

In quegli anni fare l’autostop era estremamente facile: se si era poi in compagnia di una ragazza, si poteva star certi di avere un passaggio da ogni macchina in transito.
Viaggiando in autostop si facevano incontri veramente interessanti: la tipologia degli automobilisti disposti a dare passaggi era più variegata di quanto si potesse immaginare: si fermavano i vecchi per avere compagnia, i giovani per solidarietà generazionale, le donne mature per istinto di maternità, quelle giovani per curiosità; si fermava il viaggiatore abituale per istinto, il sedentario per invidia, il commerciante per naturale simpatia, il prete per carità, il camionista per impulso naturale, il professore per insopprimibile istinto professionale.
Ho ricevuto passaggi da trasportatori di suini e da famiglie in vacanza, da motociclisti folli e da militari, da suore e da commessi viaggiatori, da coppie litigiose e da vecchi aristocratici.

Una volta fui caricato da un distintissimo signore che aveva una splendida Citrôen DS, la meravigliosa “deesse”, dal muso affusolato; quella che nel fermarsi si afflosciava e nell’avviarsi si sollevava come se volesse misurare la strada prima di balzare in avanti e decollare. L’interno della macchina era interamente foderato di pelle di leopardo, il cruscotto era di pregiatissima radica, i comandi erano lucidissimi. Il vecchio automobilista indossava un completo di flanella principe di Galles dalle tonalità ocra e tabacco, calzoni alla zuava, calzettoni color caffè, scarpe gialle all’inglese, giacca corta sportiva e bordata in pelle, guanti in pelle bicolore, traforati con le dita scoperte, dolcevita dal collo alto color panna, occhiali d’oro; aveva dei baffetti perfettamente curati e le basette brizzolate spuntavano fuori da una berretta di lino grezzo, con la visiera breve e la calotta traforata.
Il “nobiluomo” si informò sulla mia destinazione, mi comunicò in un francese ben scandito e con limpidissima pronuncia, diverso da quello frenetico e incomprensibile dei parigini, che non avrebbe potuto accompagnarci per un lungo tratto, essendo ormai vicino alla sua residenza. Poi, nel breve tragitto, mi fece alcune domande informandosi soprattutto dei miei studi, si complimentò col mio francese che, annotò compiaciuto, era un francese un po’ demodè, antiquato, quasi ottocentesco e quasi perfetto.
Ad un certo punto rallentò, mi disse che era arrivato, si fermò, mi salutò con aperta simpatia e mi fece scendere; fece poi una larga e lenta inversione, ripassandomi davanti mi salutò di nuovo portandosi la mano alla visiera senza girare la testa, impettito e altero come la sua maestosa vettura.
Mi ritrovai alla fine di un lungo viale, all’ombra di un immenso platano, in un punto in cui le macchine in transito erano costrette a rallentare e ogni automobilista mi poteva vedere da lontano: una postazione perfetta per attendere un altro passaggio...

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