venerdì 13 novembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (14): la contestazione globale

La necessità di contrapporsi a prescindere nei confronti di chi esercitava il potere in nome di un’autorità spesso immeritata divenne per noi una fissa esasperata e qualche volta un po’ esasperante.
I genitori che comandavano grazie ad un principio d’ordine atavico e codificato anche dalla religione (onora il padre e la madre) dovevano essere disobbediti: ma io mi trovavo in difficoltà a disobbedire a genitori non autoritari che si fidavano di me e che mi insegnavano con l’esempio concreto e non con petulanti verbalismi a vivere onestamente e a improntare i comportamenti a saldi principi etici.
La scuola doveva essere contestata radicalmente e totalmente, le sue regole dovevano essere trasgredite, i riti erano da rifiutare, le attese degli insegnanti andavano disattese, nulla e nessuno andava salvato: diventava quasi un obbligo reprimere i moti di affetto per il professore simpatico e nascondere la stima per l’insegnante che sapeva meritarsela.
Alcuni nostri capetti, quelli che emergevano, erano spesso i più radicali e ottusi: predicavano e praticavano la disobbedienza, sobillavano la massa invitando tutti a sbeffeggiare i padri naturali e spirituali, guidavano la rivolta contro le autorità, … e non coglievano la contraddizione implicita che vive chi si mette a capo di un movimento che vuol decapitare i capi!
Qualche volta mi divertivo a stuzzicare l’arroganza dei nostri Masaniello rilevando queste incoerenze. Se, per esempio, il nostro agente di Pechino indiceva un’assemblea e partiva con i suoi anatemi contro il potere, non resistevo alla tentazione di alzare la mano educatamente e di aspettare che mi desse la parola (“Prende la parola il compagno studente”) per dire:
“Tu contesti globalmente il nostro sistema scolastico affermando che educa alla subalternità. Sono d’accordo con te. Ma non ti pare di mettere in atto lo stesso depravato meccanismo nel momento in cui (evitavo accuratamente di dire “nella misura in cui”) ti metti in cattedra, presiedi, moderi, dai e togli la parola, parli quanto ti pare, ammaestri, chiami l’applauso, lanci slogan, catechizzi, indottrini, inculchi,…?”
L’allocco abboccava, si indignava, perdeva il controllo di sé e articolava una risposta categorica, assertoria, spesso accompagnata da stigmatizzazioni offensiva (“reazionario, revisionista, riformista, deviazionista, menscevico, fascista, democristiano,…”).
La folla applaudiva. Io avevo buon gioco nello sfidare la canea affermando, a voce bassa: “Voi siete contro tutte le istituzioni repressive – la chiesa, l’esercito, la scuola, la famiglia, la polizia, la magistratura, i manicomi, … – ma se qualcuno ha qualcosa da obiettare, scatta l’anatema, parte l’accusa di eresia, preparate il rogo, cacciate l’obiettore a calci nel culo! Voi siete gli inquisitori, voi i sanguinari sanculotti, voi i fascisti!”.
E restavo, a dispetto di tutti.
Ero un anarcoide che usava il sarcasmo al posto delle bombe, la parola caustica al posto dei pugnali, l’ironia al posto del livore. Come tale non potevo essere amato da chi si prendeva troppo sul serio, da chi coltivava la supponenza e ignorava la misura, da chi usava la tracotanza per combattere la prepotenza, da chi non sapeva ridere di sé e sorridere agli altri.

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