venerdì 6 novembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (12): teatro

Frequentando sale d’essai e cineforum, ebbi l’occasione di avvicinarmi al teatro. Non quello accademico che si rappresentava (o, meglio dire, rappresentava se stesso) al Teatro Grande, ma quello marginale ed emarginato (e compiaciuto per questa emarginazione) della Loggetta che allora era un piccolo teatro ricavato da una chiesetta sconsacrata e ceduto per poche lire ad una compagnia di dilettanti (che ben presto, coi primi successi, assunsero quell’aria di ricercata trasandatezza che connota tutti gli intellettuali di provincia).
Partecipai ad una preselezione per partecipare ad un corso di recitazione. La mia inestricabile cadenza dialettale, che nessun lavaggio nelle acque dell’Arno aveva attenuato, non mi consentiva di gigionare con testi classici: lessi un breve testo rabbioso, non ricordo se di Norman Mailer (tratto da Il nudo e il morto) o di John Osborna (tratto da Ricorda con rabbia o forse da Lutero). La violenza del testo permetteva di sibilare le parole, di mormorarle a denti stretti, di monotizzare la recitazione, di smozzicare la frase, di gutturalizzare con un certo effetto, di rantolare fra una parola e l’altra, roteando gli occhi come il Duce e come Carmelo Bene,…
Fui accettato al corso, assieme ad un gruppo di altri aspiranti attori. Non lo frequentai, un po’ per pelandronaggine (la frequenza alle lezioni era obbligatoria), un po’ per snobismo (non volevo diventare un mediocre attore ma, casomai, un affermato regista, folgorato all’istante dal successo), un po’ per la intrinseca incapacità di decidere che ormai stava caratterizzando il mio vagabondaggio esistenziale e culturale (mi piaceva bazzicare il milieu ma non amavo confondermi con gli sfigati che lo componevano, non volevo stabilirmi, non avevo intenzione di dedicarmi esclusivamente a qualcosa, preferivo assaggiare e lasciare, presenziare ma essere di passaggio).
La passione per il teatro lasciò comunque qualche strascico che mi portò, qualche anno più tardi, a preparare la tesi di laurea sulle origini del teatro italiano, dopo aver scartato una tesi su Artaud che presupponeva una permanenza a Parigi.
Intanto frequentavo La Loggetta e assistevo agli spettacoli sperimentali che allora imperversavano con discreto successo.
Ricordo gli spettacoli della nostra compagnia con le regia di Renato Borsoni o di Mina Mezzadri, con Gatta e altri. Ricordo il successo di La curt dei pulì, in dialetto.
Ricordo un Pirandello chi? nel quale un gruppo, mi sembra torinese e forse diretto da Memè Perlini, presentò un frullato incomprensibile - volutamente incomprensibile - di testi di Pirandello, tutto giocato su frasi smozzicate, su una scena completamente buia esplorata da tasselli di luce che rivelavano particolari di scena o dettagli di corpi irriconoscibili. Ricordo uno spettacolo futurista, intitolato Futurballa e tratto da testi di Balla, che finiva con lunghi salsicciotti gonfiati sul palco con bombole di aria compressa e lanciati sul pubblico perplesso e poco propenso a scomporsi. Ricordo un elegantissimo e godibilissimo excursus nell’operetta di Paolo Poli. Ricordo una sgangherata provocazione en travesti di Leopoldo Mastelloni che, baule in scena, recuperava abiti e poesie, sciarpe e canti, cappelli e balli, accessori e frammenti di memoria. Agitandosi in scena ruppe le lunga collana che faceva roteare, una pioggia di perle inondò il palco e defluì in platea.
Ricordo l’appassionata e appassionante lettura delle poesie di Porta fatta da Franco Parenti che finì lo spettacolo con la camicia fradicia di sudore.
Ricordo una performance di Carmelo Bene che roteava gli occhi come un pazzo e recitava non so cosa con la sua voce ora roboante, ora neniosa, sibilante o cavernosa, strascicata o in falsetto, sguaiata o in sordina, utilizzata sempre con un bislacco alternarsi di volumi e timbri, in un continuo gioco vocale fine a se stesso, a volte illogico, non sempre collegato al senso e coerente al testo, non sempre comprensibile, alla lunga noioso. Si raccontava di lui che, al termine di uno spettacolo, avesse pisciato dal palcoscenico sul pubblico in risposta a una provocazione o forse in omaggio a una ovazione.
Ricordo una ripresa di Prova d’orchestra di Fellini fatta dal Gruppo della Rocca con alcuni nostri amici fra gli attori (Silvana De Santis col marito Ireneo, Dario Cantarelli, cugino del mio amico Luigi).
Al Teatro Grande si andava di raro, per occasioni particolari: un Ubu Roi di Brecht; un Dio Kurt di cui conservo un vago ricordo poco; il musical americano dello scandalo - Hair - che era arrivato da noi con qualche censura; Il sottoscala con Tedeschi…

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