martedì 31 gennaio 2012

Le nevi del Kilimangiaro Les neiges du Kilimandjaro (2011) di Robert Guédiguian

Tutto il senso del film è condensato nella prima scena: gli operai di una fabbrica in crisi sono riuniti per scegliere con un desolante sorteggio i venti lavoratori da sacrificare e mandare in cassa integrazione (anticamera del licenziamento) per salvare gli altri. L’angoscia degli espulsi è mitigata dalla consapevolezza di immolarsi per tutti; il sollievo di chi si salva è guastato dalla pena per le vittime.
Un analogo dilemma si presenterà a Michel, il maturo sindacalista che ha gestito la crisi ed è finito nella lista, quando - in cassa integrazione - verrà rapinato di una grossa somma e di due biglietti per un viaggio in Africa (regalo dei figli per il trentesimo anniversario del suo matrimonio) e scoprirà che il rapinatore è uno dei giovani espulsi insieme a lui. Dopo aver denunciato il furto per tentare di recuperare il malloppo, si troverà a riflettere sulle ragioni sociali che hanno portato il giovane operaio a diventare rapinatore; e si chiederà se è giusto seguire l’istinto di conservazione o assecondare la propensione alla solidarietà maturata nei lunghi anni di militanza politica; se difendere quello che ha conquistato con tanti sacrifici o convincersi che la lotta sindacale deve proseguire anche per quelli che non conoscono la coscienza di classe; se assecondare la giustizia che vuole sanzionare le colpe e perseguire i colpevoli o quella che vuole l’attenuazione delle disuguaglianze, la comprensione degli errori, la tolleranza.
Guédiguian, nello sviluppare questa “piccola storia” è abilissimo e convincente e rivela una straordinaria naturalezza e una sorprendente sensibilità nel tratteggiare una galleria di personaggi - anche secondari - di eccezionale incisività.
Michel, il protagonista (l’eccezionale Darroussin) ci conquista per la inquietudine in cui si contorce, dibattuto fra la voglia di salvare le piccole felicità conquistate e la ostinata coerenza con gli ideali progressisti che lo hanno accompagnato per tutta la vita, scisso fra la pace privata ed i riemergenti conflitti sociali, fra la difesa del territorio e del benessere “particulare” e la infinita battaglia (“continuons le combat”) per la conquista del bene collettivo, fra l’esigenza di riposo del guerriero e il richiamo della foresta; e ci affascina e sorprende per la dolcezza con cui sa rapportarsi, dopo trent’anni di matrimonio, con la alla sua donna, Marie-Claire (una straordinaria Ariane Ascaride) commovente per la tenerezza e per la solidarietà che la lega al suo uomo, per la fedeltà che non limita la sua autonomia di giudizio, per la matura capacità di comprensione e la disincantata ironia che caratterizza il suo profondo rapporto, per la leggera delicatezza con cui affronta spaesamenti e tragedie; esile e solida, dolce e risoluta, e risolutiva.
I figli, che si rivelano meno tolleranti e più borghesemente moderati dei loro genitori, sono magistralmente abbozzati e ci dicono quanto si vada perdendo negli anni la spinta propulsiva verso una maggior giustizia sociale accesa dai vecchi idealisti figli delle rivoluzioni e dei socialismi.
E poi abbiamo l’ amico-cognato, genuino nella sua apparente insofferenza e nella insistenza con cui proclama la sua intolleranza per nascondere uno schietto carattere di burbero-benefico;  la cognata è credibile nei suoi momenti di fragilità emotiva; Christophe, il giovane “espropriatore”, arrabbiato con i meccanismi spietati della società che schiaccia gli individui, infuriato con i vecchi sindacalisti che cercano i compromessi,  dolorosamente rancoroso con la giovane madre che lo ha abbandonato e lo costringe ad assumere il ruolo responsabile di padre - dolcissimo - con i suoi due fratellini-fratellastri (memorabile la scena in cui la donna, disinvoltamente scombinata e menefreghista per scelta consapevole, affronta Marie-Claire, che la richiama ai doveri di madre, proclamando, con un’isterica furia che non nasconde la sofferenza, il suo diritto - coûte que coûte- alla felicità); ed infine il cameriere (che pare uscito dal meraviglioso mondo di Amélie), disarmante per il modo con cui legge gli stati d’animo dei suoi clienti e prescrive i cocktail giusti per ogni esigenza.

Il film scorre fra sorrisi amari e trattenute commozioni, concreto e magico, asciutto e toccante, disinvolto e rigoroso, drammatico e comico. Parla di problemi di lavoro e non cade nella retorica da comizio, tratta del disagio giovanile senza lasciarsi tentare da sermoni inutili, tocca il tema dei conflitti generazionali senza schierarsi, sostiene il valore del perdono senza farne celebrazioni ideologiche.
Il maturo regista  analizza la fragilità e ne scopre l’incommensurabile valore; svela la estrema vulnerabilità di tutti i personaggi ma sa scoprire in tutti un punto di forza che si rivela poi decisivo nello svolgimento della vicenda, descrive la desolante aridità dei rapporti umani e individua in questi deserti le oasi di tenerezza. Sempre leggero, misurato, puntuale nell’alternare con tempismo perfetto i momenti di tensione e quelli di rilassamento. 
Se il senso del film è compendiato nella scena iniziale, la morale - se così si può dire - è la strepitosamente autentica dichiarazione d’amore che chiude il film, fatta da Michel a Marie-Claire sotto l’abbacinante sole di Marsiglia.

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