mercoledì 11 gennaio 2012

Faust, di Aleksandr Sokurov (2010)

Spiazzante, disagevole, inquietante, duro, livido.
Fin dalle prime inquadrature l’impatto è sconcertante: la cinepresa spazia nel cielo infinito e plana  lentamente sopra una fumosa città annidata in un vallone compresso fra un mare grigio e una montagna ferrigna, scivola fra i muri scrostati di una strada tortuosa, penetra in un tugurio sordido e freddo, indugia sul dettaglio del pene bluastro di un cadavere in decomposizione che Faust sta dissezionando mentre spiega al suo importuno discepolo che fra quei visceri maleodoranti non può trovare spazio l’anima.
Tutto il film si snoda poi in spazi opprimenti, fra straducole strette, portici e sottopassi bui, piazze inclinate, passaggi angusti (con corpi che si accalcano), case sghembe, stanze strette e basse ingombre di masserizie inutili e popolate da un brulicume di topi, scale avvitate e ripide, porte sospese che si aprono nel vuoto.
Ad accrescere il disagio ci sono le scelte registiche con inquadrature storte, piani obliqui, movimenti di macchina confusi, deformazioni ottiche, sfuocature, viraggi verso un monocromo verde marcio, primi piani esasperanti. 
I personaggi si accalcano nel quadro (quattro terzi) e lo riempiono accavallandosi spesso innaturalmente gli uni sugli altri, indaffarati in movimenti e gesti inutili e collocati in una contiguità imbarazzante, in una continua ressa confusa, in una puzzolente promiscuità greve e tetra che mette a disagio e suscita repulsione. I gesti e le posture sono innaturali. I dialoghi sono incongruenti, le riflessioni illogiche, i vaniloqui incomprensibili e vani, i discorsi - infarciti di teatrali e innaturali citazioni goethiane - appaiono assurdi, improbabili, scoordinati. 
Quando si esce dall’opprimente atmosfera della città, ci si ritrova in lande spoglie, boschi contorti e nudi, forre selvagge, pietraie tetri, valloni opprimenti e claustrofobici. La sensazione di gelo è persistente e assoluta: l’unico elemento di calore che ritroviamo in centotrentaquattro minuti di terrificante freddo è dato dalle immagini infernali di un geyser che vomita getti di acqua calda inutili nella desolazione di un paesaggio polare.
Una sequenza dopo l’altra, anche lo spettatore viene risucchiato in quella atmosfera persistente di lividume freddo e si ritrova immerso al punto di percepire fisicamente il gelo e il lerciume, la fame  e la nausea, il disagio e l’angoscia. 

Faust attraversa la sua dolorosa vicenda sbigottito, senza i furori tragici e la pulsione eroica che gli assegna il suo mitizzato epos. Ha la fame materiale del pane e della carne, non quella cerebrale della conoscenza assoluta; non ha la sete astratta del veder realizzati i suoi immateriali ideali politici, morali ed estetici, ma viene mosso dalla sete fisica del corpo liscio e caldo di una donna, incerto fra la carnalità e l’idealizzazione,  fra la trasfigurazione solarizzata della passione e la curiosità dell’ispezione vaginale.

La tentazione - a fine spettacolo - è quella di cercare rimandi, ispirazioni, maestri.
Viene in mente - confusamente - il cinema di Murnau e di Dreyer, ma anche quello di Ingmar Bergman e Tarkovskij;  i quadri di Jan Wermeer, Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio; e la Commedia di Dante.


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