martedì 22 dicembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (22): Professori

Fra gli insegnanti alla Cattolica ne ricordo alcuni per ragioni di stima o di affetto, altri - come è giusto - per l’antipatia che suscitavano con le loro ossessioni e con la cavillosità con cui ci inquisivano agli esami; altri ancora sono rimasti nelle pieghe della memoria per alcuni vezzi o tic che ce li facevano sembrare un po’ fuori di testa.
Ricordo Giuseppe Nangeroni, professore di geografia: un simpaticissimo vecchietto che ogni tanto spariva dalla circolazione per mesi e, al suo ritorno, si presentava in aula allegro e abbronzato e ci raccontava delle sue esplorazioni sui vulcani in Africa.
Ricordo il professor Severino, severo anche di fatto, austero proprio come si addice ad un filosofo, autorevole nonostante la giovane età, reso più autorevole ai nostri occhi dalla sua espulsione dalla Cattolica - equivalente al rogo per gli eretici - dovuta a certe incomprensibili posizioni da lui assunte su non so quali aspetti del suo intricato pensare dogmaticamente incompatibili con la dottrina della Chiesa.
Ricordo ancora Giovanni Bazoli, professore di diritto, del quale non frequentai le lezioni, che - oltre che ostiche e noiose - erano da molti di noi ritenute inutili ai fini della formazione umanistica. Mi sembra di ricordare però di aver sostenuto con lui un esame, facoltativo, e di aver preso un bel voto. Nell’82 gli affidarono il compito di rifondare il Banco Ambrosiano, dopo il fallimento accompagnato da accuse di collisione con la mafia e con la finanza vaticana e dopo la morte per impiccagione di Calvi. Negli anni successivi guidò la sua piccola banca alla fusione altre banche - la cattolica del Veneto, la Carialo, la Commerciale Italiana, il San Paolo di Torino - e ora guida uno dei più grandi gruppi bancari italiani.
Ricordo Calvi, un professore di psicologia, che ci propose come esperienza propedeutica al suo corso di passare una settimana in un manicomio. Fu un’esperienza folgorante. L’edificio era un incrocio fra la caserma ed il convento: all’ingresso c’era un posto di guardia, e poi chiostri assolati di una luce irreale, giardinetti desolati, corridoi vasti e spogli, cancelli e porte, serrature e sbarre, androni alti e squallidi, scale consunte, latrine maleodoranti di un misto di piscio e disinfettante, stanzette squallide, letti arrugginiti, materassi logori, lenzuola grezze, coperte militari, tavolini dalla vernice scrostata ingombri di piccoli oggetti inutili, …
Ricordo soprattutto le “interviste” ai matti, le chiacchierate sconclusionate, l’allucinata lucidità di alcuni, l’allegra alienazione di altri, il disperato isolamento, gli sguardi acquosi, i capelli irti, i vestiti sghembi, le bocche sdentate.
Amalia viveva nelle cucine dove la tenevano occupata in mille inutili incombenze: pesava centoventi chili e beveva acqua a litri perché - spiegava con estrema tranquillità - in pancia teneva un presepio intero, e doveva dar da bere a tutti: a greggi e pastori, ai magi, al bue e all’asinello, ai maiali, alle galline, al calzolaio, al mugnaio, all’arrotino, a Maria e Giuseppe, e anche ad Erode e ai suoi soldati.
L’ingegnere mi spiegava che degli esseri di altri pianeti stavano conquistando la terra, ma non lo facevano negli stessi modi grezzi dei Romani o di Gengis Kan: si infiltravano in noi lentamente, prendendo possesso in modo impercettibile del nostro cervello, espandendosi progressivamente nelle nostre cellule, imbevendo la nostra coscienza, saturandoci l’anima. Nessuno poteva avvertire questa occupazione graduale, questa invasione progressiva. Solo lui, l’ingegnere - che per un trauma cranico subìto in un incidente stradale aveva perso la coscienza per tre settimane - aveva percepito il cambiamento al momento del risveglio. E ora, per l’acuita sensibilità, sentiva crescere dentro il nemico: dava l’allarme ma nessuno gli badava. Tentava di convincere gli inservienti e quelli ridevano. I suoi parenti gli davano ragione, ma lo facevano per non contrariarlo. Un infermiere, interamente posseduto, tentava di ridurlo al silenzio con sedativi. Il mondo era perso. Lui avrebbe resistito ancora per poco. A me affidava il compito di diffondere l’allarme, di salvare il mondo.

Nella noiosa routine si aprivano ogni tanto squarci di luce per la mente e sprazzi di energia cerebrale: da una lezione di Negri - che citando con disinvoltura autori di mezza Europa ci catalizzava divagando sul gusto per le rovine nella letteratura del primo Ottocento - si poteva uscire culturalmente appagati; da una lezione della Gallicet Calvetti - che ci parlava con impegno, con fervore e talvolta con rabbia dell’irenismo etico di Spinosa - si poteva uscire assolutamente felici.
Il resto era noia: le lezioni con obbligo di frequenza erano poche, in omaggio ai lavoratori studenti; si passava la giornata spostandosi in piccole mandrie da un’aula all’altra, occupando la biblioteca o la sala di studio, bivaccando nei corridoi.

Nessun commento:

Posta un commento