martedì 1 dicembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (18): John

Da Venezia presi la direzione di Milano. Il camionista che mi diede il primo passaggio mi lasciò in un autogrill dalle parti di Vicenza. Mi aggregai sullo svincolo d’ingresso ad un compagno attrezzatissimo (pareva uno scout col suo bravo zaino, lo stuoino infilato di traverso nelle cinghie dello zaino, il sacco a pelo, la borraccia a bandoliera, il cappello a tese larghe col laccio sottogola; ed era perfino dotato di un grosso pennarello e di un pacco di cartoncini bianchi rettangolari per scriverci in stampato la città-traguardo da mostrare alle macchine in transito). Era prassi consolidata che gli autostoppisti solitari si accoppiassero per ottenere più facilmente i passaggi e per viaggiare sicuri.
Il giovanottone era di New York; si chiamava John Mc Gibbon; era diretto ad Amsterdam per ricongiungersi con il padre e riprendere il volo per gli USA. Trovammo subito un passaggio. L’automobilista che ci raccolse usciva al casello di Brescia ovest; era mezzogiorno; mia sorella abitava a poca distanza; con qualche difficoltà linguistica ma aiutandomi a gesti invitai John - che parlava solo inglese - a pranzo: facemmo una doccia sotto gli alberi del parco, con la canna per innaffiare le aiole, mangiammo salamine alla brace e ripartimmo immediatamente. Era necessario arrivare a Lugano o a Locarno o a Bellinzona prima di notte per trovare ospitalità nell’ostello e per partire poi di buonora per il passo del San Gottardo che, mi spiegò John, doveva essere attraversato, non capii perché, di mattina.
Arrivammo a Bellinzona verso l’imbrunire. John mi disse che lui non dormiva nell’ostello, che si sarebbe organizzato diversamente. Abbandonò l’asfalto e si diresse verso un cantiere sul pendio della collina. Si fermò a venti passi, si aggiustò lo zaino, si girò. Non capii se per salutarmi o per invitarmi a seguirlo. Non avevo voglia di mettermi a cercare l’ostello. Mi incuriosiva sapere come il cow-boy avrebbe risolto il problema della notte. Lo seguii. Entrammo nella villetta in costruzione: mancavano porte e finestre, l’impianto elettrico era in fase di allestimento, mancavano i pavimenti, non tutte le stanze erano intonacate. John spazzò un angolo di una stanza con un mozzicone si scopa trovato fra i calcinacci, aprì dei fogli di cellofan inzaccherati di malta, ci stese sopra uno stuoino e sopra lo stuoino srotolò il sacco a pelo. Lo guardavo , come un apprendista guarda il maestro. Si sedette su due sacchi di cemento, tirò fuori il sacchetto dei viveri e si mise a mangiare. Mangiucchiai anch’io alcuni avanzi, sbirciandolo, e ostentando disinvoltura. Mangiammo in silenzio. John bevve una lattina di birra calda, con l’ultimo sorso si sciacquò rumorosamente la bocca, sputò la schiuma fuori dalla finestra e si infilò nel sacco a pelo. Era quasi buio. Gli dissi “gutnait” e uscii dalla stanza. Una scala senza ringhiera portava al piano di sopra. Salii la scala alla luce dell'accendino. In cima alle scale si aprivano tre porte su due camere e un bagno. La vasca da bagno era già murata ma ancora protetta da carta adesiva e ingombra di calcinacci. Mancava la rubinetteria. Tolsi i calcinacci, distesi nella vasca il mio sacco a pelo, mi sdraiai. Dalla finestrella del bagno si vedeva il profilo di una collina e un pezzo di cielo con le sue brave stelle.
La mattina fummo svegliati alle sei dal trambusto dei muratori che si preparavano al lavoro. Dopo aver fatto fagotto delle nostre robe, sfilammo davanti a loro in silenzio. Uno ci salutò con una certa simpatia.
Ad Airolo, sulla strada che saliva al Gottardo, superai il mio record di attesa di passaggio - quasi quattro ore - e dovetti rassegnarmi a prendere il treno per Andermatt, dall’altra parte del passo. Seppi poi che le auto venivano caricate sul treno e trasportate al di là della galleria e pagavano un pedaggio al quale si aggiungeva una gabella per ogni passeggero trasportato.
Andermatt la ricordo incassata fra alte pareti di montagna; sole due ore di sole al giorno in estate; una fontana con l’acqua più fresca e buona di tutta la mia vita; un piccolo ostello grazioso, pulito, confortevole; un pranzo leggero e gustoso; un’aria frizzante, proprio svizzera.
A Basilea John prese il treno per Amsterdam perché era in ritardo sulla tabella di marcia. Visitai Basilea in un giorno e mezzo: ricordo solo una cattedralona protestante. Girando per le strade, per assorbire il genius loci, come amavo fare in ogni città nuova, fiutavo reminiscenze confuse di Concili, Trattati, contese e robe del genere; mi facevano sorridere poi anche altre insopprimibili reminiscenze suggerite dal nome tedesco della città – Basel, che in bresciano vuol dire “bacialo” – o da quello francese – Bâle, la cui traduzione in milanese è facilmente intuibile.

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