martedì 1 dicembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (19): Marie, detta Svoboda

A Basilea, nell’ostello, feci amicizia con una cecoslovacca da poco emigrata in America. Si chiamava Marie, ma io la chiamavo Svoboda, come il suo presidente, per scherzo, ma anche per i suoi modi bruschi, il suo carattere chiuso, la sua taciturna introversione. Viaggiava verso nord, nella mia stessa direzione: a lei faceva comodo avere un compagno di viaggio, per sicurezza, considerato che anche allora le ragazze sole erano malviste e correvano qualche pericolo; a me faceva comodo avere una compagna di viaggio, per utilitarismo, considerato che era più facile ottenere passaggi se ero in compagnia di una ragazza, bella o brutta che fosse.
Risalimmo la valle del Reno, attraversando Friburgo (l’apoteosi del medioevo tedesco), la Foresta Nera (anche dall’autostrada si capisce che il nome è indovinato), Baden-Baden (che noi ridacchiando chiamavamo Baden-Baden-Baden), Heidelberg (dove, secondo le guide turistiche, si sarebbe dovuto respirare in ogni angolo aria di erudizione), Mannheim (dal castello ricordo un panorama fumoso ma splendido, con la confluenza del Neckar nel Reno), Mainz (altra confluenza Reno-Meno; visitando la città seppi che Mainz non era altro che Magonza, la città di Gutenberg), Coblenza (altra confluenza Mosella-Reno, ricordo una chiesa con due sproporzionati e inverosimili campanili nella facciata).

Io e Svoboda stavamo insieme me non eravamo insieme. Si parlava poco, in un francese incerto, il suo diverso dal mio, e più incerto. Si mangiava in fretta, si trottava molto, si riposava affiancati, girandoci la schiena.
Una sera - il sole al tramonto ispirava nostalgie e confidenze - le chiesi di parlarmi della sua vita in America. Mi disse che c’era da pochi mesi e che dell’America non voleva parlare. Le chiesi allora di Praga. Mi disse un po’ cupa che non voleva parlare nemmeno di Praga. Le chiesi di Kafka, mi ripose con un silenzio ostinato, a testa bassa. Parlai io di Kafka, come se dovessi svolgere una relazione, ma con entusiasmo: parlai della gelida storia di spersonificazione di Samsa ne La metamorfosi e della sensazione di forte immedesimazione che avevo provato nel leggerlo; parlai dell’inquietudine che mi aveva assalito nel leggere Il processo, del senso di lacerazione che ti prende scorrendo le pagine de Il Castello; parlai degli sconcertanti Diari e, siccome continuava a tacere, mi misi a raccontarle le pagine che mi avevano maggiormente colpito. Le chiesi se si riconosceva, considerato il suo esilio, nelle vicende di Rossman emigrante in America .
Parlando mi infervoravo. Svoboda cominciò ad un certo punto ad allentarsi e a sbirciarmi incuriosita, sempre sospettosa. Forse non capiva quello che dicevo. La vidi però attenta, a tratti mi pareva quasi attratta. Feci ancora qualche considerazione. Dissi che amavo Kafka perché lo sentivo vicino al mio modo di essere. Le parlai di me con la stessa foga con cui avevo parlato di Franz, sovrapponendo il mio mondo al suo, la mia angoscia alla sua, la mia desolata inquietudine alla sua.

Ad un certo punto, mentre mi attorcigliavo in considerazioni troppo complicate e cominciavo ad eccedere col mio narcisismo, mi accorsi che Svoboda stava piangendo. Nel quasi-buio della sera vidi chiaramente i suoi occhi pieni e le lacrime non frenate. Mi bloccai. Lasciai che si ristabilisse il silenzio, dopo tante chiacchiere inopportune. Ed aspettai senza chiedere.
Svoboda cominciò a parlare, sottovoce, quasi impercettibilmente. Mi parlò, con frasi brevi e smozzicate, in quel suo francese duro. Mi parlò di Praga, del suo quartiere, della sua strada. E mi raccontò dei carri russi che erano passati davanti al suo palazzo la notte fra il 20 ed il 21 agosto del 1968.
Era passato solo un anno, ma Marie aveva tutto scolpito in testa. Raccontava senza interrompersi, come se recitasse una preghiera ripetuta mille volte, con un bisbiglio monotono. Ricordava i rumori dei motori nella notte, la fila dei camion e dei carri armati, l’idea che fosse un’esercitazione militare, la colonna dei blindati che non finiva più; le luci che si accendevano una dopo l’altra a tutte le finestre, la gente che scendeva in strada in pigiama, i carri, i soldati sui carri, divise russe, polacche, ungheresi; la colonna che non rispettava il semaforo, i cingolati che svoltavano verso il centro sgretolando l’asfalto.
Svoboda piangeva senza frenarsi e continuava a ripetere: ”L’asfalto, hanno rovinato l’asfalto, hanno rotto la strada; hanno lasciato buche, tombini sfondati, selciato dissestato; hanno rovinato tutta la mia strada; e continuavano a passare sui detriti, fino a scorticare il fondo, a far affiorare la terra,…; non c’è più la mia strada, me l’hanno rovinata tutta …”.
La chiamai per nome - Marie - e le presi delicatamente la mano. Continuò a piangere come si io non ci fossi. Le lasciai la mano e me ne restai lì seduto in silenzio ad ascoltare i suoi singhiozzi.
Le prestai il fazzoletto per soffiarsi il naso.
Quando si quietò rientrammo all’ostello, senza parlare.

Il mattino dopo Svoboda-Marie venne a salutarmi: aveva la febbre, avrebbe preso il treno per Colonia e poi l’aereo per casa.
Mi abbracciò stretto stretto, si staccò per guardarmi con una smorfia che pareva sorriso ma forse non lo era, mi ringraziò tenendomi le mani sulle spalle, guardò il mio imbarazzo, mi strinse ancora forte, lei tremante, io impalato, come il vero Svoboda.
Poi si staccò bruscamente e se ne andò senza voltarsi indietro.

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