lunedì 21 dicembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (21): Firenze

I primi giorni di novembre del 1966 partii per Firenze con un amico che frequentava la sala di studio della biblioteca Queriniana.
La nostra amicizia era nata dalla comune passione per i libri. Parlando delle reciproche letture, mi aveva segnalato e prestato L’Uomo senza qualità di Musil, in due volumi einaudiani dal prezzo per me inabbordabile.
Il viaggio d’andata lo facemmo, naturalmente, in autostop. Trovammo alloggio in un affollato ostello sotto la collina di Fiesole. Mi sorprese la perfezione minuziosa del suo bagaglio, organizzato, completo, esatto, inappuntabile.
Facemmo indigestione di musei, compresi alcuni “secondari” rispetto ai soliti splendidi e visitatissimi Uffizi, Pitti, San Marco e Palazzo Vecchio. Fra un museo e l’altro si mangiava badando al risparmio, rintanati in qualche osteria o sotto uno dei i rari porticati del centro. La pioggia che picchiava ininterrottamente sulla città non ci permetteva le classiche passeggiate all’aria aperta in Piazza della Signoria, al Giardino dei Boboli o all’Orto Botanico vicino al museo Archeologico.
Il 5 novembre dovevamo riprendere il lavoro: il 3, nel primo pomeriggio, abbandonammo la città sotto un violentissimo temporale, diretti verso l’ingresso dell’autostrada vicino alla Certosa.
Sotto la pioggia battente nessuno si fermava per darci un passaggio. Ci infradiciammo quattro ore prima di chiedere al casellante di trasgredire i suoi regolamenti ed ospitarci sotto la pensilina d’ingresso per chiedere un passaggio ai camionisti fermi davanti alla barra.
Mentre su un furgone di muratori pendolari ci inerpicavamo sulle pendici dell’Appennino verso Dicomano, l’Arno straripava in città e un’ondata di fango sommergeva strade e vicoli, inondava case e negozi, allagando la Biblioteca Nazionale, rovinando in Santa Croce ed nel suo Museo dell’Opera, espandendosi nei piani bassi ed nei depositi degli Uffizi, nelle chiese e nelle sacrestie, coprendo il centro di melma e detriti.
Il 4 novembre, di mattina, le televisioni di tutto il mondo mandavano in diretta le immagini del disastro.

Da tutta Italia e da molti paesi d’Europa e d’America accorsero i “cappelloni”.
Di giorno lavoravano fino allo stremo accanto ai fiorentini, vicino ai pompieri e ai militari. Tutti impegnati a salvare il salvabile: i crocifissi lignei del Trecento e le bottiglie di vino delle cantine, i manoscritti della Biblioteca Nazionale e gli attrezzi degli artigiani, le metope etrusche e la merce accatastata nei magazzini dei commercianti.
Di notte riempivano ogni metro quadrato asciutto, affratellati dalla spossatezza, dalla consapevolezza di essere singolarmente insignificanti, formiche minuscole nel disastro immane, ma collettivamente forti, utili, importanti, efficaci, protagonisti di un’azione “storica”.
I lazzaroni si rivelavano infaticabili, le teste vuote sapevano pensare e decidere, i figli di papà dimostravano di saper fare qualcosa che i loro padri nemmeno avevano considerato.
I media li battezzarono immediatamente, con pomposa retorica, “gli angeli del fango”: loro, senza nulla di angelico, spalavano fango con uno straccio sulla bocca, gli occhi arrossati e le vesciche sulle mani.

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