giovedì 9 aprile 2015

Storie pazzesche di Damián Szifron (2014)


Siamo fatti così …
Potremmo essere raffigurati, come nelle immaginette devozionali degli anni ’50, con un angioletto alla nostra destra e un diavoletto alla nostra sinistra, perennemente scissi fra le pulsioni che esplodono dentro e le regole che ci contengono da fuori; fra il desiderio di abbandonarci felicemente agli istinti (più o meno primordiali) e gli insensati inviti a rinnegarli andando infelicemente contro natura.
Da una parte alita soave l’afflato delle tendenze normali della natura umana (che la religione impicciona ha voluto etichettare tout-court come “vizi capitali”): quelle inclinazioni che spingono ogni individuo ad amare prima di tutti se stesso e a ritenersi ovviamente preferibile agli altri (superbia), a conservare quel che ha (avarizia), a cercare il benessere, il piacere e l’appagamento (lussuria e gola), a considerare sottratto a sé quel che avvantaggia gli altri (invidia) e infine a desiderare in primis la serenità, la pace, la distensione (accidia).
Dall’altra spira forte il vento delle leggi e dei comandamenti, delle norme e delle regole che nel loro insieme formano la fede etica, plasmano le attitudini sociali e la coscienza civica, sviluppano l’empatia e la convivenza democratica, instillano la buona educazione, inculcano il senso del dovere e il richiamo alla responsabilità.
Il conflitto fra essere e dovere costituisce la sostanza della nostra esistenza.
Un conflitto che per gli esseri “normali” vede prevalere (in diversa misura) la virtù pubblica sul vizio privato, la solidarietà sui sani egoismi, il self control sui giusti sdegni, la pudicizia e la riservatezza sull’edonistica soddisfazione dei piaceri.
Trasgredire diventa difficile. Lo impediscono la religione, l’educazione, la cultura, il patto sociale. Spesso, a contenerci entro gli argini stabiliti, entra in gioco perfino la nostra pavidità; un meschino calcolo di opportunità ci convince ad appiattirci nella “quotidianità”, smussare l’esuberanza, controllare gli impulsi, contemperare gli egoismi, se non altro per evitare il rischio di soccombere di fronte a “individui” meno moderati e più determinati.

Ecco perché ci piace questo film. Perché i suoi protagonisti sanno trasgredire.
Nel corso di due orette che passano via veloci, assistiamo a sei trasgressioni, a sei diverse “rotture” di argini, a sei piccole deviazioni che, per l’effetto valanga, producono risultati devastanti.
In ognuna di queste sei vicende, un nostro alter ego – un uomo o una donna qualunque – reagisce invece di incassare e porta coerentemente a termine la sua reazione.
1. "Pasternak" racconta la rivincita di un povero disadattato (invisibile) che, con stratagemmi geniali (degni di Agata Christie), si vendica in un colpo solo di tutti quelli che in qualche modo sono stati la causa o la cassa di risonanza dei suoi fallimenti (ed ora sono in sua completa balìa, queruli e impotenti);
2. “I ratti” descrive l’esecuzione truce di un ricco usuraio indisponente ad opera di due emarginate;
3. "ll più forte" è la sfida in crescendo, portata all’estremo, fra due automobilisti che si massacrano in un duello spilberghiano (l’ambientazione è quella);
4. "Bombita" riferisce della crescente irritazione che assale un rispettabile cittadino che si sente impotente di fronte alla violenza larvata della burocrazia impermeabile e irragionevole;
5. "La proposta" si sviluppa attorno al tentativo di un paperone di scaricare, a pagamento, la colpa di un incidente provocato dal figlio su un suo fedele dipendente;
6. "Fin che morte non ci separi" è la storia di una tragedia della gelosia che esplode in un delirio di odio e di vendette fra due sposi proprio nel giorno del matrimonio.

La brevità delle storie le rende dense e concentrate, e asseconda la potenza dell’impatto.
La struttura del prodotto risente molto del linguaggio televisivo che sui fatti di cronaca efferata imbastisce trame, detta stilemi, ricava successi. E ci sguazza.

Le sei storie sono bestiali, come suggeriscono le immagini dei titoli di testa, e selvagge, come dice il titolo originale.
Ma il film è divertentissimo.
Come possano delle storie tanto crudeli essere anche così esilaranti e come riescano ad ispirare nello stesso tempo sia il raccapriccio che il riso, lo spiegano i meccanismi complessi della catarsi.
Chiedo venia per il didascalismo, ma forse occorre ricordare che, secondo il pitagorismo, è il processo di purificazione del corpo che porta alla liberazione dell’anima dall’irrazionale.  E che in questo film la narrazione (così ben costruita) die fatti ha lo stesso valore (e ruolo) che nell’antica Grecia veniva assegnato alla poesia, condannata da Platone perché rappresentava ed esaltava “perniciose passioni”, ma elogiata da Aristotele in quanto capace, attraverso la mimesi, di indurre negli spettatori una purificazione delle passioni.
(I cinefili ricorderanno il contrasti su questo argomento fra Guglielmo da Baskerville ed il venerabile Jorge ne Il nome della rosa; e quelli che masticano di psicanalisi sanno che il processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da sistemazioni conflittuali può essere ottenuto attraverso la completa rievocazione degli eventi responsabili del trauma, che vengono rivissuti, a livello cosciente, sia sul piano razionale sia su quello emotivo).

Il meccanismo della narrazione filmica è semplicissimo: il regista presenta un piccolo “incidente critico” (che è esperienza comune di tutti); noi ci immedesimiamo nella vittima (come spesso accade al cinema); partecipiamo divertiti e sollevati alla sua prima reazione (“Bene! bravo!”); poi assistiamo al “naturale” sviluppo del conflitto quasi soddisfatti dal fatto che la guerra non si smorzi (come sempre succede, purtroppo, nella realtà); ed infine ci ritroviamo a tifare con sempre maggior empatia (quasi con entusiasmo) per il protagonista che, diversamente da noi, non molla ma reagisce caparbio, avvia una metamorfosi che da vittima lo trasforma in carnefice, cerca rivalsa e vendetta, dispiega a pieno la sua cattiveria – violenza liberatoria contro violenza ottusa – e chiude la questione alla maniera di Bronson, il giustiziere della notte, in barba a tutte le rassegnazioni e al senso della misura imposto dal convivere civile.


E il segreto dell’appagamento che percepiamo alla fine del film sta tutto nel fatto che siamo così insoddisfatti della nostra acquiescenza che ci facciamo bastare perfino la rappresentazione di una rivalsa.

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