giovedì 9 aprile 2015

Hungry Hearts (2014) di Saverio Costanzo




Tutti i film raccontano di un qualche squilibrio; tutti sviluppano la loro trama attorno alla conseguenza di uno scompenso; in tutti il motore dei fatti o la temperatura delle relazioni sono costituiti da carenze o eccessi, da ossessioni o rabbie, passioni, devianze, disagi, infatuazioni.
Per convincersi di questo, basta una semplice verifica: prendete il Mereghetti, aprite a caso, cercate un film che conoscete e divertitevi a individuare da quale incidente critico scaturiscano i fatti, o quale squilibrio condizioni la vicenda, quale vizio capitale sia rappresentato. Se il bislacco giochetto lo fate in compagnia di amici cinefili, vi capiterà di bisticciare nel cercare la convergenza sulla diagnosi, resa sempre difficoltosa sia dalla presenza di un numero eccessivo e contraddittorio di sintomi, sia dalla pesante interferenza operata dalla lettura soggettiva (ché ognuno di noi, come sappiamo, ha un suo filtro interpretativo costituito dalla combinazione alchemica fra cultura, esperienza ed emotività).

L’agghiacciante film di Costanzo non si sottrae alla regola e si sviluppa attorno alla inquietante, patologica, infelice fragilità di Mina (Alba Rohrwacher).
Se l’inizio è esilarante, da commedia (Mina entra per errore nell’antibagno di una fetida toilette di un ristorante cinese, vi rimane chiusa dentro e lì conosce Jude - Adam Driver - vittima di una indisposizione atrocemente fetida); e se i primi sviluppi sono da love story (i due si piacciono, si attraggono, si coccolano con la sconsiderata tenerezza di ogni nuovo amore), il corpo della storia e la conclusione sono da triller (sottogenere psicotico).
Il passaggio dall’idillio all’incubo è segnato dall’inattesa maternità di Mina che risolleva dissesti antichi, carenze affettive per orfanezza precoce, impacci esistenziali, precarietà lavorative, immaturità sentimentali. La gracile e affascinante adolescente diventa donna e precipita in un groviglio di disequilibri: l’inquietudine si manifesta prima con l’ossessione per il parto naturale e il rifiuto delle cure ostetriche, poi con l’attaccamento simbiotico al neonato, con smanie iperprotettive (paraspigoli a mobili e termosifoni per un bambino che nemmeno gattona) e con la presunzione di bastare in assoluto; poi ancora con l’assurdo salutismo che si traduce in un veganisimo integralista e delirante (con l’orto biologico sul terrazzo che si affaccia su una caotica strada di Brooklyn) ai confini con l’anoressia; poi con la radicale opposizione alla pediatria; infine con la scelta agorafobica di escludere il mondo ostile e infetto (smog e radiazioni) e di isolarsi per evitare il Contagio, finendo annegata nei propri deliri mistici e intrappolata nei miasmi del proprio dissesto psicotico. Viene da ripensare alla allegra ma allegorica scena dell’incipit che si svolge nei putridi cessi di un ristorante cinese a New York, ombelico paradigmatico della contaminazione universale (e viene pure da chiedersi, en passant, che ci facesse Mina in un ristorante cinese di terz’ordine).

Il povero Jude ama in egual misura il bimbo che deperisce e la madre alla deriva.
Vorrebbe salvare l’uno e l’altra. Prova a mediare, cerca di cucire gli strappi, di cauterizzare, di proteggere il nido; insegue soluzioni ricorrendo a sotterfugi. Ma non riesce a convincere o a imporsi con la pallida, indifesa, fragile, anoressica Mina che dispiega un’energia incontenibile, una resistenza inimmaginabile, un’ostinazione selvatica da belva ferita capace di sfoderare gli artigli.
Anche Mina ama Jude, e forse ne ama la normalità; ma è uterinamente legata al figlio, che considera un predestinato (come Rosemary’s baby?). Non vede altro. Non sa vedere altro. È sommersa, viene inghiottita, si abbandona nel garbuglio delle sue ossessioni, fino a perdersi.

Saverio Costanzo sottolinea la discesa nel delirio con riprese ossessive (talvolta eccessive, e forse anche un po’ furbette, da mestiere). In alcuni passaggi i movimenti di macchina sono frenetici e le inquadrature appaiono sporche, sfocate e deformanti (con fisheye che consegnano immagini quasi escheriane); le ambientazioni sono claustrofobiche irrespirabili (a cominciare da quella del bagno del ristorante cinese, piccolo paradiso, fino a quella a quella dell’appartamento newyorkese, microcosmo infernale). Il montaggio è impulsivo; i dialoghi diradano con l’infittirsi della sventura (geniale!); la impercepita colonna sonora di Nicola Piovani è dolce, quasi a contrasto con la crudezza a cui fa da sfondo (indovinato e struggente appare l’inserto di “Tu si’ ‘na cosa grande pe’ mme”). 

Gli eccessi formali sovraccaricano l’efficacia della narrazione ma – apparentemente – non stabiliscono categorie di giudizio. Il regista assiste neutro al dissidio della coppia, con Mina che scivola nel parossismo e Jude che si affanna impotente, ma non emette sentenze esplicite, schiva grezzi manicheismi, elude la trappola dello schierarsi; osserva con compassione il dispiegarsi della tragedia e registra l’impotenza dell’amore (o la potenza distruttiva dei legami) facendosi partecipe (e facendoci partecipi) dell’angoscia dei suoi personaggi.
Forse si tratta di una neutralità apparente, di facciata; così come apparente, di “volontà”, sembra l’incredibile pazienza (e la pietà) di Jude che ad un certo punto, esasperato anche dal deserto relazionale e istituzionale che lo circonda (dall’esterno non arrivano altro che blandi suggerimenti e disinteresse), non trattiene l’insofferenza e molla all’ostinata Mina un ceffone, inseguendo soluzioni impulsive e sbrigative, ritenute (a torto) più efficaci della sfibrata empatia.

Proprio questo ceffone segna un punto di svolta e costituisce un indizio che anticipa lo scarto comunque improvviso e atroce che sblocca e chiude la storia.
Un film del genere non fa presagire lieti fini. Ma nessuno poteva pronosticare “quella” sorprendente soluzione finale. Per un momento viene da pensare che l’esito sia troppo sbrigativo e semplicistico a fronte della complessità della tragedia (il deus ex machina appare sempre come una soluzione troppo comoda, mai convincente) e che un finale sospeso avrebbe potuto essere più coerente (e inquietante).
Mentre però scorrono i titoli di coda (in cauda venenum) noi poveri inermi spettatori-partecipi ci rendiamo conto della paradossale condizione in cui siamo stati trascinati e ci assale un gran disagio (un groppo, un senso di colpa, una immensa vergogna) nel percepire di aver nutrito dell’insofferenza (anche un pochino misogina) verso la “matta”, di aver soffocato un “finalmente, ecchecazzo!” nella scena del ceffone e di aver assistito alla “eliminazione” del problema con una vaga sensazione di sollievo. 


Non è mai del tutto inutile o banale un film che spiazza e instilla dubbi e riesce a mettere in luce l’incoerenza fra pancia e testa.

Nessun commento:

Posta un commento