giovedì 9 aprile 2015

Class Enemy di Rok Bicek (Slovenia, 2013)

In un liceo sloveno, l’inspiegabile suicidio di una ragazza scatena fra i compagni di classe di una reazione di dolore sordo che trova sfogo in una contestazione rabbiosa nei confronti di un professore di tedesco, intransigente e gelido, arrivato per rimpiazzare una collega in maternità, permissiva ed empatica.
Il corto circuito determinato dal lutto e dallo stress fa saltare tutti gli equilibri già precari – verticali e generazionali, trasversali e culturali, professionali e ideologici – fra insegnanti, alunni e genitori.
Le insofferenze adolescenziali si scontrano con le inadeguatezze educative; le fragilità emotive scompigliano gli incerti principi etici; il conflitto mette in crisi le teorie pedagogiche apparentemente condivise; esplode la miscela di sentimenti e risentimenti.
La weltanschauung va in affanno e il patto educativo si scardina.
Assistiamo alla rissa fra chi proclama il valore della disciplina e chi sostiene l’efficacia del coinvolgimento empatico o almeno della negoziazione; all’antitesi fra i propugnatori dell’istruzione e i caldeggiatori dell’educazione.
L’invocazione e il bisogno di autorità sono frustrati dalla scarsità di autorevolezza; la necessità di gerarchie e regole che richiedono obbedienza e rispetto stride con la sete fisiologica di autonomia; il valore dei divieti si contrappone all’efficacia della complicità amicale; il partito del fare collide con quello dello stare insieme …

In questa bolgia intricata, il regista si schiera, accendendo prepotentemente i fari sulla crisi della genitorialità iperprotettiva e della pedagogia “moderna” che insieme allevano ragazzi deresponsabilizzati e insofferenti alle regole, cuccioli mai maturi, esseri fragili e disadattati, incapaci di reggere dolori o frustrazioni.
Peccato che a sostegno di questa posizione scelga di creare un personaggio improbabile nella sua gelida compostezza, rigido come un baccalà, emotivamente coriaceo, anaffettivo al limite dell’ebetudine. Un extraterrestre che transita indenne fra le macerie esasperantemente muto, trattenendo emozioni ed espressioni, parole e gesti.  
L’eccessiva schematizzazione non risparmia i comprimari: i poveri insegnanti sono in affanno, disorientati assertori di fruste concezioni pedagogiche; la preside ha sue precise strategie ammantate di menagerialità ma sostanzialmente equiparabili a quelle del Direttore Didattico de Il maestro di Vigevano (Petri, 1963), il cui motto era “Quieta non movere et mota quietare”; i ragazzi appaiono fossilizzati in tipicizzazioni da manuale (il secchione, l’introverso, il leader, l’emarginato, il creativo, il tendenzialmente nerd, il mezzo hippy, la simil-emo, il quasi-punk, gli inscindibili fidanzati) e – alla faccia della contrapposizione generazionale – ricalcano, sia pure in modalità diverse, gli atteggiamenti scombinati dei genitori, ne sono lo specchio deformato o la proiezione esasperata e ne prefigurano lo sconsolante destino. (Confermandoci anche nella convinzione ovvia che la micro-comunità costituita da una classe scolastica rispecchia le caratteristiche e i comportamenti della società da cui proviene).

Questi eccessi di semplificazione però possono essere perdonati ad un’appassionata opera di prima (quasi autobiografica) di un regista giovanissimo che si sforza, nonostante la rabbia (quasi hanekiana), di comprendere le fragilità e conservare  sguardi compassionevoli.
E ha l’intelligenza di lasciare un finale aperto a mille spunti di riflessione.




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