lunedì 1 giugno 2009

1955 - I GIOCHI (parte 4): le armi e le guerre

Amavo invece in modo del tutto particolare giocare con cerbottane, fucili ad elastico, archi e frecce, lance, spade e pugnali, fionde.

LE CERBOTTANE

Le cerbottane le ricavavamo da canne delle più disparate provenienze (tubi idraulici, bacchette di lampadari, condutture del gas, fusti di bambù, bastoni per le tende, canne di alluminio, rami di sambuco svuotati dal loro morbido midollo); le migliori erano quelle di metallo cromato dei bastoni che reggevano le grucce appendiabiti negli armadi.
I proiettili erano scelti a seconda del calibro della canna e della sua lunghezza: per le piccole cannucce ci si doveva accontentare di palline di carta, secche per gli scherzi frettolosi o umide (masticate e ridotte in poltiglia) nelle gare di precisione, quando il proiettile, a dimostrazione della mira, non doveva rimbalzare e perdersi ma restare incollato al bersaglio.
Anche le palline di mollica di pane erano perfette, ma era difficile procurarsi la materia prima a causa della stretta sorveglianza che i genitori esercitavano sul pane che, per tabù ancestrali, non doveva andar sprecato.
Con le canne di maggior calibro si costruivano proiettili fatti con coni di carta: c’era sempre qualcuno che faceva i coni più belli dei miei, lunghi, dritti, asciutti, affusolati, resistenti, perfetti.
I miei venivano un po’ tozzi, sfiatati, stropicciati, umidi di saliva. Se li volevo efficienti dovevo prepararmeli a casa con la colla o riutilizzare gli scarti dei miei compagni più abili.
I nostri tiri erano potenti e precisi: la mira era il risultato di mille esercitazioni; la potenza era dovuta a proiettili di calibro esatto (inseriti per pochi millimetri nella canna per non bagnarli e appesantirlo con la saliva) e al soffio deciso, breve e secco.
Qualcuno di noi aveva introdotto i “coni armati”, con uno spillo fissati in punta: erano proiettili temutissimi e micidiali (ma vietati) sulle chiappe, che si rivelavano inefficaci sugli usci perché lo spillo, comunque lo si bloccasse, rincagnava invariabilmente invece che infiggersi nel legno.

I FUCILI AD ELASTICO

I fucili ad elastico erano la mia specialità.
L’aspetto estetico e la funzionalità tecnica dei miei fucili non temevano concorrenza.
Sceglievo un asse, la intagliavo a forma di fucile, la cartavetravo con accuratezza e la lucidavo, dando al calcio quelle sinuosità ergonomiche che caratterizzavano i veri fucili; qualche volta incidevo sui lati le iniziali o vi inchiodavo targhette di latta o medagliette decorative; poi fissavo in punta una catena di elastici leggeri e flessibili di gomma chiara (la “para”), migliore di quella fatta con anelli neri ricavati da vecchi copertoni di bicicletta che, all’atto pratico, si rivelavano poco elastici, deformabili, facili ad ingarbugliarsi e fragili.
Il cane era costituito da una molletta per la biancheria fissata alla cassa con altri elastici che servivano come ricambi.
Oltre ai fucili semplici si costruivano anche fucili “a mitraglia” con due o tre colpi.
I fucili a tre colpi erano infidi per l’avversario che, nella concitazione della battaglia, dopo aver ricevuto il primo colpo, si avvicinava credendoti “scarico” e si beccava due micidiali colpi a distanza ravvicinata. Ma erano infidi e traditori anche per il proprietario che spesso si feriva da solo per una molletta un po’ allentata che si scaricava a tradimento sulla nuda caviglia.

Poco diffusi erano i fucili corti “a canne mozze”, più frequenti le pistole, strepitose come forza di tiro ma poco precise: ognuno di noi ne aveva almeno due infilate nella cintura dei calzoni.

Si partiva per i campi di battaglia armati fino ai denti e con le tasche piene di chicchi di granoturco o, quando il conflitto si inaspriva, di sassolini che andavamo a raccogliere sul greto del fiume.
Le battaglie fra squadre avvenivano nel bosco che si prestava bene sia alla guerra di posizione che a quella di movimento, luogo ideale per combattere e morire, per escogitare accerchiamenti e pianificare assedi, per garantirsi la fuga e disporre ripiegamenti, per preparare agguati e tendere imboscate, per preordinare ritirate strategiche e contenere le disfatte, per ripararsi dietro ai tronchi e per fare, da sopra gli alberi, da sentinella o da cecchino.

ARCHI E FRECCE

Gli archi e le frecce imperversavano quando all’oratorio si proiettavano film di Robin Hood.
Una regola imposta dagli adulti e condivisa da tutti vietava l’uso dell’arco per la guerra.
Era sulla bocca di tutti la storia di un bambino che aveva perso un occhio per colpa di una freccia mal indirizzata: il pensiero di un ragazzino con l’orbita cucita nascosta da una pezza piratesca era un deterrente assolutamente efficace per tutti.
L’arco, come nei tornei a Nottingham, veniva usato solo per le gare di tiro.
Forse per questa ragione il semplice arco di legno di salice subì una veloce evoluzione e fu presto sostituito da archi vigorosi e robusti fatti con grossi rami di legno di castano, poco flessibili ma potentissimi; e le frecce di legno sottile, decorate con pinne direzionali fatte con penne di gallina, furono rinforzate in punta con chiodi appuntiti o sostituite con dardi fatti con stecche d’ombrello acuminate.
L’allenamento avveniva contro gli alberi nei campi.
Per le gare invece si usava un’asse di legno con disegnato il bersaglio a cerchi concentrici.
Le gare erano organizzate per eliminazione o per punteggio: nelle gare per punteggio facevano fede i punti segnati sul bersaglio; nelle gare ad eliminazione usciva dalla competizione chi falliva il bersaglio; e vinceva l’ultimo rimasto in gara.
Divertentissimo era poi, più che il tiro al bersaglio sull’asse di legno, il tiro a segno contro barattoli di latta: era impagabile la soddisfazione di veder saltare le scatole di pomodoro messe in fila su un muretto; ed era un’estasi ritrovarle nell’erba infilzate da parte a parte.

LE SPADE

Le spade venivano sfoderate nella stagione del film di Zorro (Il segno di Zorro, con Tyrone Power, del 1940, arrivato da noi qualche annetto dopo) o in quella de I tre moschettieri (del 1948, con Gene Kelly e Lana Turner) e si incurvavano diventando sciabole poco maneggevoli quando venivano proiettati all’oratorio i film dei pirati e dei bucanieri.
Spade, fioretti e sciabole erano sempre accompagnate dai pugnali che vivevano brevi stagioni da protagonisti con le diverse uscite dei film di Tarzan interpretati da Johnny Weissmuller, grande ex-campione olimpionico di nuoto, grande attore dall’ugola potente che già in quegli anni mostrava incipiente calvizie e malcelata adipe.
Con le spade ingaggiavamo dei sofisticatissimi duelli, imitando i Moschettieri nelle movenze, nei passi, nelle finte, negli scarti, nelle stoccate e negli affondo.
I pugnali li portavamo infilati nella cintura e li usavamo, con prudenza, nella lotta corpo a corpo. Negli assalti all’arma bianca qualcuno di noi li teneva stretti fra i denti: la moda non prese piede perché, se l’immagine aveva un suo effetto romantico, la realtà - come sempre - appariva molto pedestre: un pugnale fra i denti infatti provocava un aumento fastidioso della salivazione e impediva di urlare: e non è né efficace, né dignitoso effettuare una carica sbavando in un silenzio imbarazzante e ridicolo.

LA FIONDA

La fionda, da noi chiamata tiraprede, era l’arma preferita in assoluto: nessuno la considerava un giocattolo, nessuno di noi ne era sprovvisto, tutti sapevamo costruircela, a nostra immagine e somiglianza, più o meno bella, più o meno efficiente.
Era lo strumento essenziale, l’appendice imprescindibile, il corollario immancabile.
E per averla non aspettavamo ispirazione dagli eroi di celluloide.
Era il dettaglio che ci connotava, come la pistola per i cow-boy, la daga per i legionari di Cesare, la lancia per i watussi, il boomerang per gli aborigeni; e come la tonaca per i preti o la cuffia per le suore, il cappellino a cono per i cinesi o la pelliccia per gli esquimesi, le penne per i
pellerossa e la bombetta per gli inglesi.

Il tirasassi era costituito da tre elementi: la forcella, gli elastici e la tasca.

La forcella idonea per la fionda perfetta non esisteva in natura: bisognava costruirsela, come avevano fatto gli uomini primitivi con l’ascia di selce, trasformando un pezzo di legno in un in manufatto semplice e geniale. Per prima cosa era necessario individuare l’albero adatto (e non era scelta di poco conto); poi bisognava cercare pazientemente una biforcazione che avesse i due rami di giusta proporzione, simmetrici ed uguali; si tagliava quindi il ramo a valle della biforcazione, lo si sfrondava accuratamente, si tagliavano i due rami gemelli e poi si scortecciava il tutto. Per dare la giusta forma - che era quella del calice dal fondo a semisfera, non a cono - si
infilava nella biforcazione un barattolo dalla dimensione adatta e si legavano fra loro i due rami verdi, stringendoli attorno al cilindro. Poi si attendeva che il legno seccasse.
Molti di noi sperimentavano tecniche di essiccazione fantasiose per dare alla forcella la giusta rigidità e la necessaria resistenza: c’era chi la appendeva al sole e chi la lasciava asciugare all’ombra, chi la metteva in forno e chi la sotterrava nella sabbia; alcuni facevano bollire il pezzo di legno prima di metterlo in forma e poi lo asciugavano alla fiamma: effettivamente il legno bollito acquisiva una straordinaria flessibilità e l’essiccazione alla fiamma lo pietrificava.

L’elastico giusto era difficilissimo da trovare: non era assolutamente idonea la tagliatella di gomma ricavata dalla camera d’aria delle biciclette, anche perché i tubolari a nostra disposizione erano quelli irrecuperabili che, dopo mille rappezzature, venivano scartati perché si presentavano stracotti, screpolati, deformati, pieni di bolle e coperti di toppe.
Andavano un po’ meglio le strisce tratte dai pneumatici delle moto o delle auto, che spesso
però conservavano la curvatura poco funzionale della ruota originaria.
Qualcuno aveva provato ad usare gli elastici bianchi da sartoria, ma subito aveva dovuto pentirsi della stravagante scelta e sorbirsi le più umilianti derisioni: a nessuno interessava la funzionalità di quei ridicoli elastici buoni per le mutande della nonna.
I tiranti migliori erano quelli di gomma gialla, quella che noi chiamavamo para, oggetto del desiderio di una intera generazione, invidiatissimi, rarissimi, ricercatissimi. Per noi comuni mortali era anche impossibile averli: si favoleggiava che non fossero ricavati da altri prodotti ma
che fossero fabbricati appositamente per le fionde e che si potessero trovare belli nuovi, confezionati a coppie, in un negozio a Brescia che aveva l’esclusiva per tutta la provincia. Nessuno di noi ha mai saputo dove fosse quel negozio e quali generi trattasse, se vendesse oltre agli elastici articoli sportivi, o scarpe, o prodotti per caccia e pesca, o materiale idraulico, abbigliamento o altro.

La tasca doveva essere rigorosamente di pelle: quelle fatte con pezze di tela sovrapposte si sfilacciavano e si rompevano, quelle ricavate dai copertoni delle biciclette erano troppo rigide. La pelle - morbida, sottile e robusta - consentiva una presa sicura, permetteva di “sentire” se il sasso era alloggiato nel modo giusto e, quando si rilasciavano gli elastici per far partire il colpo, si infilava nella forcella senza intoppi.

Le tecniche di tiro erano sostanzialmente due, quella del calcolatore e quella dell’improvvisatore: il calcolatore prima di ogni tiro sceglieva il sasso, caricava la tasca della fionda, mirava tendendo la fionda lungo una linea ideale che andava dall’occhio al bersaglio passando attraverso la forcella, tendeva l’elastico, riaggiustava la mira, fermava il tremore dovuto alla tensione, mollava la presa e sbagliava il colpo, sempre per un pelo; l’improvvisatore disinvolto, tenendo la fionda bassa a livello della vita, metteva in tensione l’elastico senza prendere la mira e mollava immediatamente la presa centrando, nove volte su dieci, il bersaglio.

ECHI DI GUERRA

I nostri giochi di guerra si ispiravano esclusivamente ai film d’avventura (esploratori, pirati e moschettieri), ai romanzi di Salgari o di Molnar, ai primi fumetti popolari, non alle guerre vere, per noi irreali, lontane nel tempo e nello spazio.

La seconda guerra mondiale, finita da pochissimi anni, non aveva lasciato tracce nella nostra infantile quotidianità.
In tutte le famiglie c’erano reduci dalla Russia, dall’Africa, dall’Albania o dalla Grecia; in alcune case si portava ancora il lutto per dei morti o si tenevano infilate sul vetro della credenza le foto di dispersi.
Ma a noi bambini nessuno raccontava nulla.
La nostra fame di storia avrebbe scatenato la curiosità; la nostra sete di storie ci avrebbe indotto a chiedere troppi particolari; il nostro desiderio di conoscere vicende belliche, situazioni, paesi e nemici avrebbe scoperchiato troppe sofferenze, avrebbe sollevato troppi imbarazzi.
Capita spesso che una dolorosa vicenda non riesca a sedimentare per trasformarsi in mito, non si assesti al punto di poter essere ripresa per diventare alimento per l’immaginario collettivo.
Perfino la lotta partigiana, nel corso della quale molti di noi erano nati o erano stati concepiti, aveva subito un processo di sospensione.

In casa sentivo raccontare strane storie di squadre di buontemponi che, negli anni venti, con alcuni miei zii scavezzacolli organizzavano spedizioni nei paesi vicini per andare ad azzuffarsi - di notte - con altri scioperati (o scioperanti, non si capiva bene) e tornavano esaltati dalla missione compiuta e dalle legnate date e prese.

Mio padre - con minor enfasi - mi raccontava il suo Otto Settembre, quando un capitano, fino a quel giorno stimatissimo e amatissimo, gli aveva chiesto in prestito una bicicletta ed era sparito dalla circolazione; e lui aveva dovuto svignarsela all’ultimo momento, prima che i tedeschi occupassero la caserma, ed era stato costretto a farsi a piedi tutta la strada da Piacenza a Brescia, attraverso i campi, nascondendosi di giorno e camminando di notte.
E raccontava anche di quando, reclutato a forza dai tedeschi nella Todt, era stato impiegato in squadre di lavoro per ricostruire le massicciate e riparare i binari dei treni danneggiati dai bombardamenti americani; e di quella volta che aveva rischiato la vita sotto il mitragliamento degli aerei inglesi.

In casa si favoleggiava di un mitico aereo inglese - sempre quello - guidato da un aviatore che si chiamava Pippo, infallibile e micidiale, perfido e imprevedibile, che arrivava nelle notti più buie a bombardare le case da cui filtrava il più sottilissimo luce attraverso gli infissi non perfettissimamente oscurati.

Mia sorella - a quei tempi impiegata comunale - ricordava con un certo orgoglio di quella volta che aveva salvato uno giovane zingaro dalla deportazione e, sicuramente, dalla morte: raccontava che, una domenica d’estate, mentre stava chiacchierando con una giostraia davanti ad in tiro a segno, era arrivata una pattuglia tedesca in cerca di renitenti e disertori; il giovane figlio della giostraia si era nascosto in una cassapanca; il capitano tedesco aveva ordinato ai suoi soldati di controllare i documenti di tutti i presenti; conoscendo mia sorella come dipendente del Podestà, l’aveva salutata con cordialità e le aveva chiesto - sotto gli occhi terrorizzati della zingara - se avesse visto in giro uomini in età di leva; mia sorella aveva risposto al capitano con un sorriso un po' tirato che - purtroppo - di uomini in giro non ce n’era nemmeno uno; disse anche, ammiccante, che se ne avesse trovato uno l’avrebbe sequestrato volentieri per sé e non l’avrebbe sicuramente consegnato ai tedeschi; e il capitano se n’era andato ridacchiando.

Mio padre riferiva anche, non riuscendo a nascondere il suo disappunto, la prepotenza commessa nei suoi confronti da un partigiano che gli aveva requisito una radio, sostenendo che con quella si poteva ascoltare Radio Londra.

Mia madre raccontava di quando, dopo il 25 Aprile, si era presentata in municipio al posto di mia
sorella, convocata dal Comitato di Liberazione per essere rapata in quanto amica della figlia di un notabile fascista.

La storia che si studiava a scuola si fermava al 1918. Dopo la Grande Guerra, quella di Cesare Battisti, di Enrico Toti e di Fabio Filzi, non era accaduto nulla. Mentre noi costituivamo bande e plotoni per attaccare i nemici in agguati fulminei dopo appostamenti estenuanti, in Corea, in Cina e non so dove ancora si combattevano guerre vere.
Ma noi non ne sapevamo nulla, a scuola non se ne parlava, in famiglia nemmeno, la televisione non c’era, i giornali non li leggeva nessuno.

Nessun commento:

Posta un commento