lunedì 1 giugno 2009

1955 - I GIOCHI (parte 5): cavallina, mosca cieca, fazzoletto,...

Non amavo quella variante del gioco della cavallina in cui, invece che correre e scavalcarsi a vicenda all’infinito con fugaci e multipli contatti, alcuni giocatori si mettevano in fila incurvati, agganciati fra loro a formare come un lungo bruco la cui testa si puntellava contro un albero o contro un muro e, così avvinghiati, subivano l’assalto di altri giocatori che, presa la rincorsa, saltavano impetuosamente sulle groppe curve cercando di ammucchiarsi impietosamente sull’anello più debole della catena per farlo cedere.
Ricordo ancora con fastidio il peso insopportabile di un mucchio di selvaggi puzzolenti, la fatica di reggerli, la resistenza fino allo stremo, le urla di incitamento, i movimenti bruschi e violenti degli assalitori, i fiati sul collo, i vestiti strappati, le ginocchiate sulle orecchie, il sudore, i calci nei fianchi, gli strilli e le risate,…

Mosca cieca era un gioco che si vedeva giocato solo sui libri illustrati da bambine ricche, coi vestiti lunghi a pieghe, fiocco sui boccoli biondi, scarpe di vernice.
Qualche volta, a cinque o sei anni, ci avevo giocato anch’io accettando il pressante invito di tre amichette vicine di casa, dopo essermi accertato che nei paraggi non ci fossero indiscreti e beffardi testimoni maschi. Mi sembra che sia stato proprio nel corso di questo gioco o di altri analoghi inventati dalle bambine che sperimentai le prime confuse curiosità, le prime sensazioni provocate da piccole mani indagatrici, i primi indecifrabili fremiti accesi da una guancia liscia e arrossata, i primi brividi suscitati da unrespiro vicino, caldo e leggero.

Ma non amavo nemmeno i giochi troppo delicati e da femminucce come quello delle belle statuine o un altro, buffo e infantile, chiamato regina-reginella.

Il gioco del fazzoletto, troppo bambinesco, veniva giocato solo a scuola, su proposta e sotto sorveglianza delle maestre che vietavano il calcio. Lo si subiva come un ripiego, utile se non altro a prolungare l’intervallo fra le lezioni. Speso le maestre, perse nelle loro chiacchiere, affidavano il fazzoletto e il potere di chiamare i numeri a uno di noi: questa delega provocava immediatamente l’insoddisfazione generale (per la scelta dell’insegnante che ricadeva sempre sul soggetto meno idoneo a prendere in mano le redini del gioco) e generava nel corso del gioco occasioni furibonde di scontro.
Ancora oggi mi sorprende pensare a quanti pretesti di rissa offrisse un gioco così elementare: ricordo comunque che le contese erano generate esclusivamente dalla insofferenza generale verso l’estrema discrezionalità affidata al conduttore che indispettiva sia per il favoritismo delle sue chiamate, sia per la faziosità dell’arbitraggio.
Non so poi se da questo si debbano trarre deduzioni generali sulla nostra propensione politica che ci faceva considerare preferibile la dittatura alla delega, il potere indiscusso del capo all’arbitrio per procura del primus inter pares.

All’oratorio femminile, dove si andava ogni tanto per partecipare a non ricordo quali cerimonie religiose, mentre aspettavamo sotto un portico, ci facevano giocare ai quattro cantoni, un gioco indisponente che insegna l’astuzia e il tradimento.

Durante i nostri giochi, gli adulti per noi non esistevano; la nostra frenesia ci proiettava in un universo parallelo a quello dei grandi; li incrociavamo nei nostri spostamenti ma li ignoravamo come se fossero trasparenti.
Le ore passavano infinite e fulminee; veniva sera; la compagnia improvvisamente si scioglieva; il tragitto verso casa diventava un graduale ritorno alla realtà.













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