martedì 15 aprile 2014

Ida (2013) di Pawel Pawlikowski

Siamo in Polonia, agli inizi degli anni ’60.
Le devastazioni che la guerra ha lasciato nelle persone non sono ancora rimarginate. Anna, un'orfana cresciuta in un convento, viene invitata  a mettersi in contatto con la sua unica parente prima di prendere i voti: incontra una zia, ex-magistrato militante, giustizialista inflessibile, conosciuta come “Wanda la rossa”, donna ispida e scostante ma avida di affetti, disillusa e perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, aggrappata all’alcool, al fumo, al sesso. Sola.
Da lei Anna viene a sapere di essere ebrea e di chiamarsi Ida; scopre anche di essere l’unica sopravvissuta della sua famiglia trucidata da vicini avidi nel corso dei pogrom scatenatisi durante l’invasione tedesca. Anna-Ida chiede alla zia di accompagnarla sulla tomba dei suoi, per superare il tormento dell’orfananza, dire una preghiera e riconciliarsi col passato prima di cominciare la sua nuova vita.
Il film racconta la storia di questo incontro e del viaggio che ne deriva, con le due donne, diversissime fra loro (le due attrici portano lo stesso nome, Agata: Trzebuchowska la giovane, Kuleza la zia), alla ricerca di legami, identità, memorie, fantasmi.
Wanda – bellezza sfiorita, fremente nella sua istintività – è determinata a individuare i colpevoli del massacro, a trovarne i resti di sua sorella e del fratellino di Ida, a chiudere i conti col passato (forse anche demarcando il suo senso di colpa di sopravvissuta).
Ida – dolcissima adolescente, vibrante nella sua soavità – è rassegnata a lasciarsi trascinare dalla risoluta zia, confusa, sballottata attraverso i desolati paesaggi della pianura polacca, sgomenta per l’inattesa immersione in universi estranei, tesa a salvaguardare la serenità ascetica nella quale è cresciuta e alla quale intende tornare, disarmata ma non inerme, impaurita e attratta dalle ingenue prime aperture dello scialbo mondo di oltrecortina alla cultura occidentale (rappresentate da un’orchestrina che strimpella il boogie woogie e intona Ventiquattromila baci).
Sulla fossa finalmente ritrovata, Ida mormora “Io avrei dovuto essere lì” e poi, tra la paura e il desiderio, abbandonata dalla zia che sceglie di congedarsi dal grigiore e spegnere la sofferenza, recita forzatamente il piccolo spettacolo esperienziale della normalità – conclusione purificante dal suo breve pellegrinaggio nel mondo “esterno” – e si avvia (mestamente?) verso il suo destino, segnato o scelto.

Splendido il b/n e inconsueto il formato (un antico 1,37:1, quasi quadrato); suggestiva l’accuratezza delle inquadrature e la composizione dell’immagine (con la scelta di decentrare spesso le figure nella parte bassa del quadro, lasciando il vuoto nella parte superiore); emblematica l’assenza di movimenti di macchina; efficace la contrapposizione studiata dei silenzi monastici e dei frastuoni mondani; sapienti le sfocature degli sfondi; estranianti i paesaggi emblematicamente deserti.
L’insieme degli stilemi riconduce a una “scuola polacca” ormai connotata e riconoscibile, alla “Kieslowski”, con ascendenze bergmaniane e dreyeriane, ai limiti del calligrafismo.

PS
Non riesco a sopprimere l’idea che il film - bellissimo - sarebbe stato un capolavoro se i titoli di coda fossero arrivati un quarto d'ora prima: con la scena della zia (qualche volta così eccessiva da sfiorare la macchietta) che rientra a casa, si toglie le scarpe tacco 12, accende la radio a volume altissimo, apre la finestra inondando la stanza di luce e di aria e guarda fuori, ... FINE!
Un finale aperto, meno didascalico, sarebbe stato perfetto.
Il semi-happy end con Ida-Anna che fuma la sigarettina tossicchiando, scola la bottiglia di vodka, rincontra il sassofonista belloccio e si toglie velo e mutande è la peggiore delle conclusioni possibili, posticcia, incoerente, deprimente.


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