domenica 19 giugno 2011

IN PANCHINA

Passo all’edicola, prendo il giornale, entro nei giardinetti, mi siedo sulla prima panchina al sole per sfogliare il quotidiano. Arriva un africano e mi si siede vicino: mi scosto per fargli posto ma anche per mettere una certa distanza fra lui e me. Emette un monosillabo incomprensibile, forse un sintetico cenno saluto, forse un mal trattenuto mugugno di disappunto. Guardo sottecchi le sue gambe lunghissime: calzoni sporchi, orli sfilacciati, sandali di plastica, piedi lerci, calcagni coriacei.

Si sente un afrore forte di sudore e di luridume stagionato. Continuo a leggere il giornale e spero che la sua sosta sia breve: il fastidio è forte, ma so che non riuscirò ad abbandonare la panchina prima che lui se ne vada. Mi considero un empatico, credo nella solidarietà, mi colloco politicamente fra i democratici. Non posso coltivare pensieri di esclusione, sentimenti di repulsione, moti di respingimento, impulsi di separazione o di apartheid. Ma non posso nemmeno contenere il disagio, reprimere il fastidio, ignorare il senso di imbarazzo e il vago malessere che mi assale.

Per salvarmi l’anima, penso che proverei la stessa insofferenza se il mio occasionale vicino fosse un barbone alcolizzato, un bambino iperattivo e isterico, una madre petulante e iperprotettiva, un ragazzo tatuato e bracalone, un fumatore di mezzi toscani, una vecchia ciarliera.

Per salvarmi l’anima, resto seduto e continuo a sfogliare il giornale. Penso alle probabili ragioni e agli improbabili itinerari che hanno condotto noi due - lui e me, io e lui - su questa panchina, oggi, a quest’ora, in questo giardinetto, in questo quartiere di questa città, … E penso per un attimo a come si dipanerà per noi - lui e me, io e lui - il resto di questa giornata.

Per salvarmi l’anima, penso al mio malessere che genera e sviluppa riflessioni di compassione verso questi reietti che intersecano i nostri passi, visibili in quanto corpi, invisibili come persone. E penso all’insofferenza di molti miei concittadini che invece produce livore e si esprime in atteggiamenti di schifiltoso distanziamento e si traduce in prese di posizione sostanzialmente segregazioniste.

Per salvarmi l’anima, il pensiero scivola verso la politica e verso quei cialtroni che alimentano le più primitive intolleranze per avere consenso e potere; che entrano in politica ma non sanno ragionare politicamente (“polis”), che fanno dell’indifferenza un vanto, dell’insofferenza un valore, della repulsione una dottrina, del razzismo un’etica.

E mi sento superato e stanco.

E me ne sto qui accanto a questo "negro" che come me lascia trascorrere la giornata mentre l’indifferenza dilaga e il cinismo impera, i rapporti sociali sono squinternati, i partiti sono fazioni, i sindacati sono corporazioni, la giustizia è muta, sorda, cieca e paralizzata, la finanza è rapace; e il paese è governato in definitiva da chi sa assecondare le più incivili propensioni e cerca il consenso gaglioffo, da chi promuove il consumismo e promette panem et circenses, da chi ostenta le sue fortune ed chi esibisce le sue intemperanze e ammicca al popolo divertito, da chi ama gli adulatori e non ammette il dissenso, da una persona che “a vizio di lussuria fu sì rotta, che libido fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta”. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto V, 55-57).

Intanto si fa sera.


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