domenica 24 marzo 2013

Amour (2012) di Michael Haneke


Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva) sono due affiatatissimi coniugi ottantenni, borghesi benestanti, musicisti in pensione, appagati di sé e della vita. Un ictus colpisce improvvisamente Anne e la porta verso una graduale e progressiva degenerazione. La donna rifiuta il ricovero in ospedale e Georges decide di accudire la moglie in casa, accompagnandone il declino con la determinazione calma e disperata di chi è consapevole dell’inevitabile epilogo.
La trama è tutta qui, in questa situazione scarna, fatta più di gesti che di inutili parole, di ellissi, di pudori, di imbarazzi, di confusi sbigottimenti, di atroce dolore senza lacrime.

Il film, dopo un breve preambolo allusivo, inizia con un’effrazione (i segni dello scasso dei ladri che hanno visitato l’appartamento dei due anziani sono il presagio dell’intrusione della malattia che inaspettatamente violerà il corpo della donna e scardinerà la tranquilla routine della coppia) e si sviluppa poi attorno alle crescenti manovre di isolamento e di difesa dell’intimità messe in atto dalla coppia contro ogni altra invasione, contro ogni inutile ulteriore intromissione: quella del portinaio (ossequioso per deformazione professionale) o quella dell’infermiera freddamente concreta; quella dell’allievo in debito di riconoscenza o quella della figlia e del genero (anaffettivi, distanti, capaci solo di proporre soluzioni che allontanano il problema). Perfino un piccione penetrato in casa è un intruso che verrà intrappolato da Georges e catturato con una coperta, “imprigionato” (non respinto come gli altri, la figlia prima di tutti) per essere poi liberato (o forse ucciso, che è lo stesso).

Negli spazi claustrofobici di questo preservato isolamento si dispiega struggente la veemenza di una disperazione compressa e dignitosa e si rivela – nello stesso tempo – la potenza di un amore assoluto e sgomento: il decoroso appartamento, nel quale si sono accumulati mobili e oggetti testimonianza di una vita, diventa rifugio e prigione, nido di sicurezza e gabbia di angoscia, stanza nuziale e camera mortuaria. La piccola evasione che Anna cerca nel passato sfogliando un album di vecchie foto è – a mio parere – più atroce di quanto non lo siano le scene di accudimento o quelle crude dell’agonia.

Negli infiniti tempi di forzata vicinanza fra Anne e Georges si alternano momenti di intimità e momenti di intollerabile ripugnanza: ed è difficile capire se siano più dolorosi i primi o i secondi, se sia necessario mettere in atto maggiori energie per superare il ribrezzo della degradazione o per sussurrarsi la tenerezza dei ricordi. La sintesi perfetta della dicotomia dolore-amore è la scena in cui Georges aiuta Anne nello spostamento dalla sedia al letto mimando involontariamente i passi strascicati di un ballo impacciato, tragicamente bizzarro.

Il dolore provoca asfissie, allucinazioni, alterazioni; paralizza, prosciuga e inebetisce.
La demenza di Anne – i suoi occhi, i suoi intensissimi occhi muti – e la pazienza quasi ottusa di Georges – i suoi gesti, i suoi silenziosi gesti inefficaci – ci inabissano nella depressione, nel dolore senza fondo. Le sequenze, scandite spesso da convulsi tagli di montaggio ci portano una dopo l’altra  sempre più in basso: Anne sprofonda nella sua vacua inconsapevolezza, Georges nella sua lucidissima angoscia. Il dolore prepotente è indicibile: le antiche stanze sprofondano nel silenzio, la donna piomba nell’afasia, l’uomo sceglie il mutismo.
L’irruzione devastante della malattia rende inutili gli affetti (la premura dei figli e la riconoscenza degli allievi) e svuota di senso i ricordi (le musiche di Schubert, le stampe degli impressionisti, le foto dei tempi felici, gli oggetti accumulati).
Non resta che la regressione nell’infanzia. La fiaba aiuta ad allontanare la realtà. È confortante scivolare con i pensieri verso il felice mondo dell’incoscienza, prima di abbandonarsi al sonno.

L’irruzione devastante della malattia rende inutili gli affetti (la premura dei figli e la riconoscenza degli allievi) e svuota di senso i ricordi (le musiche di Schubert, le stampe degli impressionisti, le foto dei tempi felici, gli oggetti accumulati).
Non resta che la regressione nell’infanzia. La fiaba aiuta ad allontanare la realtà. È confortante scivolare con i pensieri verso il felice mondo dell’incoscienza, prima di abbandonarsi al sonno.


1 commento:

  1. Tremendamente triste perché non lascia via di scampo come, del resto, ogni difficile realtà. Non ho avuto il coraggio di vederlo e non so se mai ce l'avrò...

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