venerdì 14 marzo 2014

A proposito di Davis (2013) di Ethan e Joel Coen

Nell’inverno del 1961 Joel David Coen ed il fratello Ethan Jesse Coen  hanno rispettivamente 7 e 4 anni e vivono a St. Louis Park, nel Minnesota; sempre nel Minnesota, a Minneapolis, Robert Zimmerman (un ventenne Bob Dylan, pulitino e pettinato) frequenta l’università e comincia a mollare il rock and roll per lasciarsi sedurre dalla musica folk  (“Le canzoni folk – dice – sono colme di disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più profondi. [...] C'è più vita reale in una sola frase di queste canzoni di quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock'n'roll”).
A 2.000 chilometri di distanza, a New York, si affacciano alla scena (su palchetti male illuminati di piccoli locali, ovviamente fumosi) i primi folk-singer (figli di immigrati delle periferie operaie) che, accompagnandosi con la sola chitarra, cantano ballate malinconiche e cercano incerti la loro strada.

Llewyn Davis, il protagonista del film dei Coen (Oscar Isaac) è uno di questi spiantati.
Vive nel Greenwich Village quando il quartiere newyorchese è ancora un dedalo di vie sghembe e di case fatiscenti; è solo, reduce da alcune relazioni sbagliate, senza affetti e senza casa; dorme qua e là sui divani di conoscenti ospitali in piccoli appartamenti dentro palazzi angusti nei quali trova economico alloggio una massa di quasi artisti (attori, musicisti, poeti, pittori, studenti, nullafacenti), alcuni ancora aspiranti tali, altri già falliti, disillusi, frustrati e sbandati; vaga incerto in cerca di scritture dopo che l’unico amico, quello con cui formava un duo, s’è suicidato; quando non si arrabatta a cantare nell’unico bar che ospita occasionalmente dei cantanti folk, accetta di fare qualunque lavoro pur di sbarcare il lunario ed evitare di tornare a fare il marinaio come suo padre o di arruolarsi nella marina (proprio nei mesi in cui Kennedy, presidente da meno di un anno, comincia a pensare a un intervento nel Vietnam che serva a “rendere credibile la potenza americana” contro il comunismo avanzante).
Lo incontriamo in un momento di crisi profonda, quando, stanco di annaspare, si sposta a Chicago in cerca di un ingaggio meno incerto; ma i sogni sfibrati, le insoddisfazioni, le instabilità emotive che si porta dentro e la scarsa determinazione rendono la sua trasferta stanca e inutile. Non trova quel che spera e torna rassegnato ai suoi vagabondaggi, nelle fredde strade del Village.  

I fratelli Coen aggiungono un nuovo ritratto alla loro galleria di perdenti.
Davis però è un loser diverso rispetto agli scombinati cialtroni di Blood Simple, di Fargo, de Il grande Lebowski o di Ladykiller, ed è diverso anche dagli infelici perdenti de L’uomo che non c’era o di A Serius Man.
Il giovane cantante folk è prima di tutto un perdente in senso letterale, avendo effettivamente perso l’amico, due donne, un figlio che non sapeva di avere, uno che non potrà nascere, la casa, il lavoro, lo scatolone degli oggetti personali (e con quello i ricordi, il passato, la memoria), la patente nautica, un gatto. E dopo la breve trasferta a Chicago, inutile viaggio kerouachiano, perderà anche (ultima dea) la speranza di poter vivere della sua musica.
In secondo luogo, la condizione di fallito è costitutiva della personalità di Davis che accetta la deriva e non fa nulla per salvare le relazioni, assiste quasi da “straniero” camusiano ai deragliamenti e si lascia inghiottire dall’atonia senza reagire.
Llewin Devis non è un rassegnato Giobbe, come il Larry di A Serius Man, anche perché non è vittima di un fato ineluttabile ma causa cosciente delle sue infelicità; e non è nemmeno un infelice rancoroso e desideroso di vendetta come il barbiere Ed Crane de  L’uomo che non c’era perché  non riesce (non desidera, non vuole) ribellarsi con l’energia necessaria ad imprimere il minimo cambiamento alla sua vita: è un afflitto Oblomov che patisce per il suo disadattamento ma ci sguazza, è un ribelle potenziale, un rivoluzionario svogliato. Non è il mondo che gli è ostile, è lui che si estrania e va contro mano, coscientemente amorfo e indifferente.
Davis vaga sconsolato alla deriva, attraversa quartieri grigi e periferie deserte, percorre strade gelate e paesaggi innevati; passa distaccato accanto ad amici incomprensibilmente gentili che sopportano i suoi ripiegamenti autistici; si scontra con sconosciuti inspiegabilmente aggressivi; incontra gente scombinata e strana, che passa e non lascia segno, come i cartelli delle stazioni su un tratto della metropolitana che paiono letti solo dallo sguardo attento e vivo del gatto.
Il suo è un percorso circolare che lo riporta al punto di partenza, come Ulisse – il gatto, intendo. Con una differenza: entrambi fuggono in cerca di altro, entrambi ritornano nella routine, ma Ulisse  torna al calore della famiglia, Davis al gelo della solitudine.
Nella scena finale - identica alla scena iniziale, a sottolineare la vuota circolarità della vicenda e della vita – Davis esce dal bar (lasciando il palco ad un giovanissimo Bob Dylan che avrà quello che lui non ha avuto) e affronta nel vicolo un pestaggio che si è cercato nell’unico suo futile ed inutile gesto di protesta.
È la presa d’atto del suo fallimento, del ripiegamento passivo, della rinuncia ad esprimere l’istinto ribelle degli emarginati.
Pochi mesi dopo esploderà in America la voglia di cambiamento che porterà all’elezione di Kennedy, all’affermarsi dei movimenti per i diritti civili (con Malcom X, Angela Davis e M. Luther King), al fenomeno hippy, alla contestazione studentesca.

Nel film ci sono momenti di acutissima emozione.
Struggente (sì, struggente) la scena in cui Davis, durante una fugace visita, canta per il vecchio padre catatonico una “loro” canzone che fa affiorare negli occhi immobili l’invisibile lampo dell’affetto antico.
Intensa la colonna sonora (quasi protagonista, come in Fratello dove sei?) curata dal sessantaseienne T Bone Burnett, già collaboratore di Bob Dylan e curatore delle colonne sonore de Il grande LebowskiLadykillersFratello, dove sei? (e – ora – della serie True Detective).
Da brividi le ballate, su tutte Hang me, oh, hang me, (Impiccami) replicata due volte.

Alcuni amici mi dicono che il film non convince perché lento, sconclusionato, senza trama.
Per quanto riguarda la trama, lascio la parola a Joel Coen che ha dichiarato: “Il film non ha una storia o una trama, per questo abbiamo aggiunto il gatto. Sì, il film gira tutto intorno al gatto!”.
Per il resto, sono convinto che il senso profondo e lo straordinario valore di quest’ultima opera dei geniali fratelli Coen stia proprio lì, nella splendida lentezza con la quale viene raccontata una vita che si trascina inutilmente e nell’insensato invilupparsi di una storia senza storia.








martedì 25 febbraio 2014

Nebraska (2013) di Alexander Payne

Woody Grant (Bruce Dern) è un vecchio incazzoso che cova rancori con l’universo, forse per la semplice ragione, comune a molti anziani, di vedersi scivolare via nella monotonia quotidiana una vita inconcludente. Per sopravvivere a questa esiziale inquietudine si aggrappa alla speranza di riscatto fornita da un dépliant pubblicitario che gli annuncia la vincita di un milione di dollari. Tutti tentano di spiegargli che la vincita è subordinata all’estrazione a sorte fra sottoscrittori di un abbonamento ad alcune riviste, ma il vecchio testardo si incaponisce, non cede e tenta in tutti i modi, anche a piedi, di mettersi in strada per andare a reclamare il suo premio nel Nebraska, a Lincoln (che – ho controllato su Google maps – dista 871 miglia, pari a quasi 1.440 chilometri da Billings nel Montana, dove vive).
Dopo aver provato inutilmente a farlo ragionare, David (Will Forte), uno dei suoi due figli, si rassegna ad accompagnarlo, coinvolgendo poi inevitabilmente anche la madre Kate (June Squibb) e l’altro fratello, Ross (Bob Odenkirk).
Il quartetto, lontano dai luoghi abituali, costretto a misurarsi in situazioni anomale, è indotto ad abbandonare l’ipocrisia di rapporti convenzionali e mettere a nudo la sostanza delle relazioni. Nello “svelamento” si accendono accuse incrociate e vengono esplicitati rancori covati a lungo nel silenzio, ma emergono anche solidarietà inimmaginabili e si scoprono legami di affetto mal riconosciuti e mai dichiarati.    
In questa breve odissea, tutti e quattro i membri della scombinata famiglia trovano l’occasione per rivisitare con confuse nostalgie i luoghi di origine (Hawthorne) e ritrovare persone dimenticate, ma imparano anche a conoscersi e riconoscersi per recuperare un rapporto che aveva perso senso e sostanza con l’accumularsi di mille piccole incomprensioni, di futili ostilità e di astiose recriminazioni. Sotto i risentimenti affiorano affettuosità mai espresse e i rapporti si rivelano più saldi e tenaci di quanto poteva apparire.
Scopriamo che David, disposto ad assecondare il vecchio per evitare il fastidio di doversi scontrare con la sua senile cocciutaggine, è tormentato da sensi di colpa; e riscoprendo un padre non conosciuto (con sogni delusi, desideri insoddisfatti, amori dissolti) cerca un’occasione nuova per ristabilire e riparare un rapporto malformato; e sente riaffiorare dentro, sotto i risentimenti antichi, un affetto filale che non si lascia smontare dalla sconcertante durezza del vecchio, sempre burbero e intrattabile. (Paradigmatica la scena dell’attraversamento del paese, col padre alla guida del desideratissimo furgone e lui accucciato, come un bambino, che contempla dal basso la sfilata trionfale del vecchio). 
Anche Ross, il fratello maggiore, anchorman di una certa notorietà, che disapprova l’arrendevolezza del fratello e detesta l’alcolismo del padre, scopre in questi frangenti complicità dimenticate e imprevedibili. (Esilarante la scena del furto del compressore).
E Kate, la moglie insolente e lucidissima, spietata nel tratteggiare gli squilibri di tutti, diventa il fulcro della solidarietà ritrovata. (Indimenticabile la corrosività dei suoi apprezzamenti e la determinazione con cui prende le difese del suo malsopportato “consorte”).
Insieme affrontano gli avidi parenti e si prendono delle piccole rivincite sugli ex-soci; insieme prendono atto della vacuità della promessa; insieme tornano a casa, alla vita di sempre.

L’avventura è una parentesi che sicuramente non muterà le dinamiche dei loro rapporti e non cambierà di una virgola le loro abitudini; ma sarà servita a restituire loro la consapevolezza di sentimenti inespressi e ridare senso ad affetti disorientati.
Perfino il coriaceo Woody, alla fine, pur con mille pudori e reticenze, si ritrova “parlante” e confessa che il milione lo pretendeva solo per lasciare qualcosa ai figli, per risarcirli di un affetto laconico, per offrire loro ragioni per ricordarlo per qualcosa di buono. (Viene in mente Foscolo: “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna”…).
Ma se il suo sogno (molto “americano”) si rivela carta da macero e le grandi speranze si rivelano inutili, i figli non lo dimenticheranno. Il viaggio nel Nebraska ha restituito un equilibrio nuovo ai loro piccoli sfrangiati affetti familiari. Questo basterà a sopravvivere nell’aridità dei giorni a venire.

La fotografia in bianco e nero ci offre l’essenzialità arida dei paesaggi e dei caratteri, la desolazione delle periferie rurali e dell’emarginazione di chi le abita, la crudezza degli spazi infiniti e dell’incomunicabilità, la sorda indifferenza di una società nella cui deriva sono trascinati i nostri poveri eroi, disillusi e stanchi.







sabato 15 febbraio 2014

Philomena, di Stephen Frears (2013)

Leggo che il film è stato premiato perché “offre un intenso e sorprendente ritratto di una donna resa libera dalla fede … che nella sua ricerca della verità, sarà sollevata dal peso di una ingiustizia subita grazie alla sua capacità di perdonare”.

Mi chiedo quanto di questa capacità di perdonare sia da attribuire alla fede e quanto alla stanchezza o alla coriacea assuefazione al dolore tipica di chi ha subito ingiustizie devastanti e non riesce a reagire alla cattiveria se non con lo sbigottimento passivo.
In genere queste vittime consapevoli giustificano (anzi coonestano, nobilitano) la loro indolenza (che in qualche modo è non-dolenza, atarassia) e quasi consacrano la loro incapacità di lasciarsi assalire (giustamente) dalla rabbia e di reagire (come si dovrebbe) con delle ragioni di fede.
Philomena intrisa di religiosità, come lo sono le irlandesi nate negli anni Venti, rientra in questa categoria.
Il perdono per lei è più appagante della vendetta, più accettabile e consono alla sua esistenza della indignazione. La remissività si è “stagionata” in lei. Nel suo intimo è convinta che l’indulgenza le faccia guadagnare indulgenze e che la comprensione della cattiveria altrui le faccia meritare hic et nunc la serenità (altrimenti impossibile per gli oppressi) e nel vicinissimo “futuro” la rivincita costituita dalla pace eterna.

La fede produce energie, è vero. Ma questo non avviene a causa di misteriose infusioni di fluidi extraterrestri.  La forza di chi ha fede è endogena, generata da meccanismi psichici legati alla presa di distanza di chi sente l’insopprimibile bisogno di sopravvivere e di superare il panico della finitezza guardando oltre.


lunedì 27 gennaio 2014

La mafia uccide solo d'estate (2013) di Pierfrancesco Diliberto, detto Pif



Arturo cresce a Palermo negli anni terribili in cui la mafia uccide indisturbata chiunque tenti di ostacolarla; e sembra non accorgersi di quello che gli accade intorno, ossessionato dall’infatuazione per Flora, sua compagna di scuola, e ostinato nel voler diventare giornalista, se non altro per richiamare l’attenzione della bambina sempre attratta da altri corteggiatori più convincenti.
La violenza rabbiosa dilaga in città e si esprime in attentati brutali e plateali: è inevitabile che tocchi i margini del circoscritto universo di Arturo suscitando dentro di lui confusione e meraviglia, e poi – in crescendo – sconcerto, amarezza, irritazione, indignazione; per fargli raggiungere alla fine la consapevolezza e il bisogno di testimonianza.

Arturo, diventando adulto, matura l’equilibrio sentimentale e la coscienza civile, ma lo fa seguendo suoi particolari percorsi e mantenendo un approccio con la realtà personalissimo, infantile, ingenuo, di una naïveté impareggiabile.
Arturo bambino e Arturo adulto sono identici, ugualmente stupiti e alieni, ugualmente innocenti e disconnessi dalla realtà assurda.
Coerenti e – a ben vedere – indistinguibili dal regista, Pif, il provocatore cronista de Le Iene e l’intervistatore allo sbaraglio de Il testimone che dell’ingenuità, del candore (volterriano), dell’idiozia (dostoevskiana) ha fatto la sua cifra stilistica, intuendo con grande perspicacia che lo sguardo innocente, fra lo stupito e lo stupido, smonta le resistenze di qualsiasi interlocutore e che le domande ingenue sgretolano l’astrusa complessità dei problemi. (Lo stralunato Pif è da ammirare, non fosse per altro, per il fatto – straordinario – che ha evitato di sfruttare il successo televisivo e la popolarità per infliggerci, come molti altri eroi del piccolo schermo, una stiracchiata e insensata dimostrazione delle sue performance).  

La tipica percezione della realtà palermitana del protagonista è testimoniata dal modo con cui sono presentati i personaggi “storici” della lotta alla mafia.
Boris Giuliano, capo della squadra mobile, per Arturo non è che lo sconosciuto simpatico signore che gli segnala l’estatica delizia degli iris alla ricotta; e quando il poliziotto viene ammazzato, il piccolo “testimone” – guardando il corpo riverso a terra crivellato da sette colpi di pistola nella schiena – non può fare a meno di concentrare la sua attenzione sui baffi con le tracce della irresistibile farcitura e sulla vetrina dei dolci frantumata dai proiettili.
Rocco Chinnici è il bonario giudice che abita nel palazzo di Flora e che – unico – intuisce con acuta ironia e simpatica complicità l’infatuazione di Arturo per la piccola coinquilina. E quando una vecchia Fiat 127 esplode davanti alla sua abitazione uccidendo lui, due carabinieri e il portinaio del palazzo, Arturo riesce a immaginare solo la sua dichiarazione d’amore scritta sul marciapiede cancellata dal tritolo o le macerie nella stanza della sua Flora e la costernazione della nonna che guarda la strage tra i fumi dell’esplosione. Ma tra i detriti s’intravede il braccio carbonizzato del poliziotto che stringe ancora fra le mani un’inutile pistola.
Dalla Chiesa è un burbero bonario che sta al gioco dell’intervista col ragazzino un po’ impertinente; ma mette i brividi la “ironica” sottolineatura della sua vulnerabilità palesata dalla facilità con cui è raggiungibile nel suo poco blindatissimo ufficio.
Solo l’inserimento di spezzoni raggelanti di sequenze reali, di repertorio, ci riporta alla realtà cruda, a noi nota perché vista in passato attraverso gli occhi meno inconsapevoli (o meno consapevoli?) di quelli di Arturo.

L’innocenza e il candore d’animo, l’ingenuità e la schiettezza, la sprovvedutezza di Arturo ci fanno apparire ancora più esecrabile, più ripugnante, quasi più grottesca la bestialità ottusa dei boss onnipotenti, sempre ipertrofizzati dall’immaginifico circo massmediolologico.
Riina e Bagarella sono beffeggiati, truci e grezzi come macchiette di varietà.
Perfino l’apatia indifferente ma complice dei palermitani che negano l’esistenza della mafia emerge maggiormente insopportabile, amaramente ridicola e mostruosa; mentre l’indignazione degli onesti, presentata ad altezza di marciapiede, appare sincera e non convenzionale.

Pif schiva il consunto retoricume, evitando di conclamare condanne o di cadere nel tranello delle celebrazioni agiografiche. 

Escluso il periodo d’infatuazione per Andreotti, per Arturo-Pif nessuno è eroe da monumento, né in negativo, né in positivo. E nessuno viene mitizzato. Solo quelli che sono morti per strada compiendo il loro routinario dovere non devono essere dimenticati, così come lo sono le loro introvabili lapidi in un paese senza memoria.