L’impiegato statale Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) ha consumato la sua piatta vita dedicandosi al lavoro
dove però non è riuscito (o forse non ha voluto) emergere dalla condizione
frustrante (ma comoda) del travet che annega (o si salva) nella routine.
Anche nella vita familiare ha messo alla base della coesione
la tranquilla consuetudine; e ora che l’amore
che strappa i capelli è finito, perdura il legame con la moglie, rinsaldato
dalla presenza di un unico figliolone imbranato, il povero Mario, sul quale i
due anziani genitori riversano concordi la loro soffocante iperprotettività.
Giovanni, orgoglioso della sua modesta professione, si
prepara ad andare in pensione, ma prima di concludere vuole sistemare il figlio,
prolungamento di sé, e sogna di lasciargli, come un’eredità, il suo posto di
lavoro.
Ma i calcoli e gli intrighi che mette in atto per far
vincere il concorso al figlio tonto vengono sconvolti da un accadimento
imprevisto che spezza la vita del povero Mario e segna una svolta radicale nell’esistenza
dei suoi genitori.
Il film, dopo la brevissima e rapidissima scena che mostra
il concitato incidente, vira decisamente dal comico al tragico. Mentre nella
prima parte Monicelli ha giocato attorno ai toni talvolta grotteschi della
commedia o ha fatto aleggiare ingenue speranze, ora, nella seconda parte, le
atmosfere diventano cupe, ferocemente plumbee, cariche di angosciante
disperazione e di pessimismo catastrofico.
Giovanni - il mediocre individualista, l’ordinario uomo
qualunque, l’arrivista senza qualità, il remissivo che galleggia cercando di
piacere e compiacere - pare subire una mutazione quasi genetica e diventa un
selvaggio aguzzino, un vendicatore irrazionale e insaziabile, un mostruoso
genio del male.
Due sono a mio parere, le chiavi di lettura dell’opera: una
psicologica e una, collegata, più specificatamente politica.
Dal punto di vista psicologico atterrisce l’assistere
all’improvvisa metamorfosi del protagonista, ma atterrisce ancora di più il fastidioso
sospetto che non si tratti propriamente di una metamorfosi, ma semmai di un’evoluzione
o – se si vuole – di una implosione.
Ognuno di noi percepisce che il mostro che esplode nella
seconda parte della tristissima vicenda è nato e cresciuto nelle ordinarie
umiliazioni della mediocre vita precedente, nelle abitudini alla
condiscendenza, nelle lunghe permanenze nei territori della sottomissione.
La scelta di Sordi, l’italiano qualunque, per impersonare
una figura così tragica, e i segnali disseminati sadicamente da Monicelli nella
prima parte – comica – del film sono numerosi (vedi, per esempio, la scena
della cattura del luccio, il litigio con la moglie, la brevissima scena del
parcheggio scippato).
Ma pochi leggono questi avvertimenti; nessuno vuole ammettere
che i demoni più terrificanti covino assopiti dentro di noi, pronti a scatenare
la loro orribile energia; nessuno accetta che la bonomia neutra che connota le
nostre relazioni quotidiane sia la maschera fragile che nasconde il vero nostro
volto che, come quello della Medusa, è in grado di agitare serpenti
aggrovigliati e di impietrire con lo sguardo.
Nel povero Giovanni Vivaldi il crollo psicologico fa
affiorare un disfacimento morale già incistato nel profondo; l’esplosione di
spietata brutalità è devastante quanto lo è stata la mortificazione di una vita
da schiavo.
Ogni repressione vuole la sua rivoluzione, deflagrante
quanto la compressione subita.
La cronaca nera, ancora oggi, racconta con troppa frequenza
efferatezze orribili e inconcepibili. E ogni volta la retorica dei media non si
capacita che certe atrocità possano essere commesse da persone normali, da
vicini di casa che salutano per le scale e portano a spasso i cani.
Dal punto di vista politico – siamo negli anni ’70 – Mario Monicelli
ci avverte che il mondo si sta caricando di energie negative. La tragica microstoria
di Giovanni fa trapelare in controluce lo smottamento generale: la crisi della
piccola borghesia, i cambiamenti sociali e la disgregazione, la “perdita dei
valori” e il riflusso etico, il montare
degli egoismi cinici e l’affermarsi dell’indifferenza per il bene comune, l’edonismo
montante, la corruzione, la sorda latitanza della politica lontana dai
cittadini, la voglia di cambiamento (mal compresa e ottusamente inibita) delle
nuove generazioni, l’eversione conseguente, il disagio sociale che ribolle
dando vita alle strategie della tensione e al terrorismo degli anni di piombo,
al teppismo spicciolo e alla criminalità più o meno organizzata.
E la paura. E le macerie che resteranno.
Ma il messaggio forse più devastante del film è nelle pieghe
della trama e ci viene spedito da un personaggio di seconda fila: Amalia (Shelley Winters) la moglie di Giovanni, reagisce
all’assurdo dolore incontenibile con la paralisi, l’ebetudine e la morte
silenziosa.
Monicelli vuole suggerirci – qui, ora e con la sua fine, poi
– che sia questa l’unica via di scampo dal mondo laido e dalla oscena disperazione?
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