martedì 20 marzo 2018

UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO (1977) di Mario Monicelli


L’impiegato statale Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) ha consumato la sua piatta vita dedicandosi al lavoro dove però non è riuscito (o forse non ha voluto) emergere dalla condizione frustrante (ma comoda) del travet che annega (o si salva) nella routine.
Anche nella vita familiare ha messo alla base della coesione la tranquilla consuetudine; e ora che l’amore che strappa i capelli è finito, perdura il legame con la moglie, rinsaldato dalla presenza di un unico figliolone imbranato, il povero Mario, sul quale i due anziani genitori riversano concordi la loro soffocante iperprotettività.
Giovanni, orgoglioso della sua modesta professione, si prepara ad andare in pensione, ma prima di concludere vuole sistemare il figlio, prolungamento di sé, e sogna di lasciargli, come un’eredità, il suo posto di lavoro.
Ma i calcoli e gli intrighi che mette in atto per far vincere il concorso al figlio tonto vengono sconvolti da un accadimento imprevisto che spezza la vita del povero Mario e segna una svolta radicale nell’esistenza dei suoi genitori.
Il film, dopo la brevissima e rapidissima scena che mostra il concitato incidente, vira decisamente dal comico al tragico. Mentre nella prima parte Monicelli ha giocato attorno ai toni talvolta grotteschi della commedia o ha fatto aleggiare ingenue speranze, ora, nella seconda parte, le atmosfere diventano cupe, ferocemente plumbee, cariche di angosciante disperazione e di pessimismo catastrofico.

Giovanni - il mediocre individualista, l’ordinario uomo qualunque, l’arrivista senza qualità, il remissivo che galleggia cercando di piacere e compiacere - pare subire una mutazione quasi genetica e diventa un selvaggio aguzzino, un vendicatore irrazionale e insaziabile, un mostruoso genio del male.

Due sono a mio parere, le chiavi di lettura dell’opera: una psicologica e una, collegata, più specificatamente politica.

Dal punto di vista psicologico atterrisce l’assistere all’improvvisa metamorfosi del protagonista, ma atterrisce ancora di più il fastidioso sospetto che non si tratti propriamente di una metamorfosi, ma semmai di un’evoluzione o – se si vuole – di una implosione. 
Ognuno di noi percepisce che il mostro che esplode nella seconda parte della tristissima vicenda è nato e cresciuto nelle ordinarie umiliazioni della mediocre vita precedente, nelle abitudini alla condiscendenza, nelle lunghe permanenze nei territori della sottomissione.
La scelta di Sordi, l’italiano qualunque, per impersonare una figura così tragica, e i segnali disseminati sadicamente da Monicelli nella prima parte – comica – del film sono numerosi (vedi, per esempio, la scena della cattura del luccio, il litigio con la moglie, la brevissima scena del parcheggio scippato).
Ma pochi leggono questi avvertimenti; nessuno vuole ammettere che i demoni più terrificanti covino assopiti dentro di noi, pronti a scatenare la loro orribile energia; nessuno accetta che la bonomia neutra che connota le nostre relazioni quotidiane sia la maschera fragile che nasconde il vero nostro volto che, come quello della Medusa, è in grado di agitare serpenti aggrovigliati e di impietrire con lo sguardo.
Nel povero Giovanni Vivaldi il crollo psicologico fa affiorare un disfacimento morale già incistato nel profondo; l’esplosione di spietata brutalità è devastante quanto lo è stata la mortificazione di una vita da schiavo.
Ogni repressione vuole la sua rivoluzione, deflagrante quanto la compressione subita. 
La cronaca nera, ancora oggi, racconta con troppa frequenza efferatezze orribili e inconcepibili. E ogni volta la retorica dei media non si capacita che certe atrocità possano essere commesse da persone normali, da vicini di casa che salutano per le scale e portano a spasso i cani.

Dal punto di vista politico – siamo negli anni ’70 – Mario Monicelli ci avverte che il mondo si sta caricando di energie negative. La tragica microstoria di Giovanni fa trapelare in controluce lo smottamento generale: la crisi della piccola borghesia, i cambiamenti sociali e la disgregazione, la “perdita dei valori”  e il riflusso etico, il montare degli egoismi cinici e l’affermarsi dell’indifferenza per il bene comune, l’edonismo montante, la corruzione, la sorda latitanza della politica lontana dai cittadini, la voglia di cambiamento (mal compresa e ottusamente inibita) delle nuove generazioni, l’eversione conseguente, il disagio sociale che ribolle dando vita alle strategie della tensione e al terrorismo degli anni di piombo, al teppismo spicciolo e alla criminalità più o meno organizzata.
E la paura. E le macerie che resteranno.

Ma il messaggio forse più devastante del film è nelle pieghe della trama e ci viene spedito da un personaggio di seconda fila: Amalia (Shelley Winters) la moglie di Giovanni, reagisce all’assurdo dolore incontenibile con la paralisi, l’ebetudine e la morte silenziosa.
Monicelli vuole suggerirci – qui, ora e con la sua fine, poi – che sia questa l’unica via di scampo dal mondo laido e dalla oscena disperazione?
  





Nessun commento:

Posta un commento