Parlando di cinema non si può, non si deve, sparare lì dichiarazioni
categoriche. Ma io non perdo occasione per sentenziare che il più mediocre fra
i film francesi è sempre in qualche modo più gradevole di qualsiasi ponzata
prodotta in Italia.
E lo dico pensando non solo ai compianti mostri del nostro
cinema del passato (troppo facile e scontato), ma considerando con un certo
rammarico anche alcuni sobri registi nostrani (che so: Costanzo, Miniero e
Genovese, tanto per fare tre nomi a caso) che fanno film onesti ma non hanno la
meritata distribuzione e non ottengono quindi il successo commerciale di certi
loro celebratissimi e premiatissimi colleghi (penso, tanto per fare un nome non
a caso, a quell’insopportabile trombone di Sorrentino).
Ecco, questo piccolo film di Prevost mi dà ragione
ancora una volta.
La storia che si narra in Quello che so di lei non è, come leggo sulla scheda distribuita
all’ingresso del cinema, quella di un’ostetrica in crisi perché emarginata
dall’evoluzione dell’organizzazione sanitaria. Sì, nel film si parla anche di questo,
ma il discorso sullo spaesamento professionale fa solo da sfondo a una storia
che indaga ben altri dissesti più complessi, altri disagi esistenziali più
profondi, altre paralisi affettive.
Una delle due protagoniste è Claire (una splendida Catherine
Frot), una levatrice di mezza età che ha canalizzato nel lavoro tutte le sue
energie, che svolge la sua professione con dedizione, empatia e competenza e
trova nella sua “missione” appagamenti bastevoli per sfangare le giornate.
Nella sua serena routine piomba improvvisamente, dopo
trent’anni di assenza, l’altra protagonista, Béatrice (una strepitosa Catherine
Deneuve) che è stata in passato l’amante di suo padre
Claire coltiva ancora dei rancori nei confronti della donna
per la quale il padre aveva abbandonato lei e sua madre e dalla quale era stato
inspiegabilmente abbandonato. E non vuole lasciarsi ingarbugliare le giornate
da una donna scombinata, capricciosa, esuberante, irresponsabile e sempre
troppo sicura di sé; per di più carnivora, amante del vino, fumatrice,
frequentatrice di bische e cliente abituale del banco dei pegni e di strozzini.
Claire, educata ma determinata, tiene a distanza la ex matrigna,
ma Béatrice è un ariete invadente e sfrontato che rintuzza ogni resistenza,
accerchia, sfonda, invade, dilaga.
L’eccentrica Béatrice e la pacata Claire ad un certo punto –
fra scontri e ripicche, sgarberie e rimbrotti, recriminazioni e rimproveri – si
accorgono di vivere fingendo di non avere paure; avvertono le proprie
incompletezze: a Béatrice manca la mansuetudine di Claire; a Claire manca la
sconsideratezza di Béatrice. Ognuna delle due si ritrova a desiderare una
briciola del detestato temperamento dell’altra; nella testa di ognuna, il
fischio del treno dei desideri risuona, facendo balenare i sogni di un’altra
vita forse ancora possibile. (Leggete, a questo proposito Il treno ha fischiato, lo splendido racconto di L. Pirandello, in Novelle per un anno).
Complice (ma non troppo) la scoperta di una grave malattia
di Béatrice, le due passano dall’ostilità alla ruvida confidenza per approdare
ad un’intimità senza sdolcinature, franca come il loro pur diverso carattere,
profonda come il loro bisogno di affetto.
Claire si smolla e comincia, più o meno convintamente, a
prendere la vita con minori intransigenze.
Béatrice (la vera regista delle metamorfosi) ricostruisce
lentamente il clima di connivenza fra donne, o forse quello di complicità che talvolta
caratterizza il rapporto fra madre e figlia.
Tutte due scoprono che abbandonarsi (che non è sinonimo di
abbandonare) fa bene.
Alla fine Claire ritrova il sapore del vino e della
femminilità.
E Béatrice, assaggiato il morbido calore della tenerezza e
toltasi per un attimo la maschera con cui nascondeva le sue fragilità, ritrova
il coraggio di sparire di nuovo – per sempre – dopo aver magnificamente compiuto,
nei confronti della figliastra ostetrica, il suo dovere di “levatrice”.
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