Il tema di Wonder
Wheel è la solitudine.
A ottantadue anni suonati e al suo quasi cinquantesimo film,
Woody Allen stempera la sua solita effervescenza comica e cinica per regalarci
un’opera che parla mestamente di esistenze stropicciate, amori rassegnati e sogni
abdicati e dissolti.
Siamo negli anni ’50 a Coney Island, nel caotico parco dei
divertimenti affacciato sul mare.
Ginny (una straordinaria Kate Winslet)
vive all’interno del luna-park (in un baraccone che è stato abitazione dei
freaks!); è separata e ha un figlio problematico, un ragazzetto di una decina
di anni, appassionato di cinema e piromane (appicca un falò perfino nello
studio del suo psicoterapeuta).
Ginny si è messa con Humpty, un giostraio sovrappeso (James Belushi),
ex alcolizzato e depresso: ha rinunciato al sogno di diventare attrice e si
rassegna tristemente a fare la cameriera in un bar. Non ha però rinunciato al
sognare l’amore: nella sua condizione di donna insoddisfatta e frustrata, nevrotica
e fragile, perennemente tormentata dall’emicrania, intreccia una relazione con Mickey,
un bagnino aspirante scrittore che però è attratto anche da Carolina, la figlia
di Humpty, riapparsa improvvisamente dopo essere scappata da casa ma, in fuga questa
volta non dal padre ma da un ex amante malavitoso.
In questo complicato intersecarsi di rapporti si sviluppa la
trama complessa, un po’ teatrale del film. L’ingranaggio però è ben oliato: i
cinque personaggi si alternano in scena con un sincronismo ottimamente
orchestrato.
Emergono due tesi: la prima dice che nessun amore è eterno
(ma vive di alti e bassi come il percorso della ruota panoramica), che nessuna
relazione trova il suo equilibrio e che ogni rapporto ha un suo risvolto
nascosto e contraddittorio; la seconda che l’infelicità è la connotazione dell’esistenza,
fondamentale e ineludibile, non transitoria e non aggirabile (come presume chi
in qualche modo cerca scappatoie per sopravvivere.
Una caratteristica accomuna le differenti infelicità dei
diversi personaggi: le crisi affettive ed esistenziali hanno origini differenti
ma non nascono dalla sfortuna bensì da precise scelte sbagliate.
Rispetto ad altri autori (penso ai Coen), Allen non tira in
ballo il destino cinico e baro, il fato, il caso, il caos. Molto laicamente,
sembra voler riaffermare che ciascuno è artefice della propria sorte (faber est suae quisque fortunae).
Resta ebraico il senso di colpa, potente al punto di
generare fragilità e nevrosi, non così potente da indurre a cambiare imprimendo
svolte alla propria vita.
Se con l’infelicità è possibile in qualche modo convivere,
più difficile è accettare l’idea che l’infelicità ce la siamo voluta.
Chi viene travolto dalla deriva non vuole ammettere di
essere responsabile delle proprie avversità; nessuno accetta di fare i conti
coi propri fallimenti; ognuno tende ad addossare su chi gli sta intorno la
responsabilità delle proprie sofferenze; e si guasta la vita cercando di far
pagare la propria infelicità a chi gli sta più vicino (l’infelicità è velenosa,
oltre che contagiosa).
Questo meccanismo, questa strategia di alleggerimento delle
proprie colpe, sul versante esterno peggiora le relazioni, su quello interno
impedisce di acquisire la consapevolezza delle proprie inadeguatezze e di
cercare soluzioni.
Del resto, come possiamo pensare di sottrarci alle ragnatele
che noi stessi abbiamo intessuto e alle trappole che ci siamo consapevolmente
costruiti?
Per questo nessuno dei personaggi del film esce dalla
gabbia; tutti restano impigliati nei propri problemi. Ognuno resta se stesso,
usurato dalla vita, sgretolato dalle scelte.
Il mondo è un paese dei balocchi dove ognuno recita la parte
in cui è confinato e nessuno trova modo di divertirsi.
La verve dei dialoghi è alleniana, ha l’impronta inconfondibile
dell’autore, coi suoi dialoghi nevrotici ma sempre densi e brillanti, con la
sua capacità di indagine psicologica precisa e tagliente; e con il suo
pessimismo cinico e desolatamente rassegnato.
La fotografia è di Storaro (settantasettenne), e si vede:
nel film si alternano colori fiammeggianti e irreali (come le cartapeste del
luna-park) quando si assiste al divampare delle passioni, colori smorti nei
momenti di crisi e colori lividi, foschi o violacei quando dilaga la
desolazione. Qualche volta le tonalità
cromatiche cambiano all’interno di una stessa sequenza con luci fredde per la
calda Ginny e un controcampo freddo per la figliastra. Storaro vuole essere all’altezza della fama
che lo circonda e strafà per non deludere il grande regista che lo scrittura:
dipinge la pioggia, gioca sui contrasti fra gli interni deprimenti e gli
esterni sfavillanti, coglie i primi piani illuminandoli in modo da scavarne lo
stato d’animo (sognante, triste, arrabbiato, sconfortato). E ogni inquadratura diventa
un quadro.
Che Storaro punti all’Oscar è evidente.
Ma io l’Oscar lo assegno al volto languido di Kate Winslet.
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