martedì 20 marzo 2018

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI (2017) di Martin McDonagh


A Ebbing, Missouri, un piccolo centro rurale sperduto nella pancia dell’America, viene stuprata e uccisa una minorenne di nome Angela.
A sette mesi dall’orrido delitto non sono ancora stati individuati i colpevoli.
Mildred Hayes (Frances McDormand), la ruvida madre di Angela, decide di affrontare l’inefficienza della polizia affittando tre cartelloni pubblicitari sulla strada che porta in paese per affiggere tre manifesti che accusano lo sceriffo di inettitudine.
Il film racconta le reazioni a questa provocazione.

In partenza Ebbing, mi riferisco al paese, appare la rappresentazione dell’America profonda, fanatica e volgare, xenofoba e misogina, razzista e retorica; che confonde la voglia di giustizia con la sete di vendetta; ed è narcisista e sbruffona come il suo attuale presidente.  
Tutto a Ebbing è molto americano: il linguaggio della gente e l’abbigliamento, le case e le botteghe, il posto di polizia e gli edifici pubblici, le strade e l’assetto urbanistico, tipico dei nuclei di transito delle carovane dei pionieri dirette nel west.
Anche Mildred, la protagonista, è molto americana nella sua johnwayniana presunzione di ottenere giustizia e nella sua indisponente ostinazione nel pretendere che lo sceriffo faccia lo sceriffo.

Ma la protesta sotto forma di domande di Mildred-Elettra smuove qualcosa, come un sasso nello stagno.
Lo sceriffo per primo manda segnali di riconsiderazione e si muove.
E anche lui lo fa con parole pacate e ragionate, scritte, diverse da quelle volgari e arrabbiate di tutti.
Fra drammi surreali e commedia grottesca, affiorano i disagi e le fragilità emotive di tutti (proprio tutti) i soggetti coinvolti che alla fine si svelano diversi, meno manichei di quanto vogliano apparire, quasi dissociati, portatori di un’intimità più dolente, ombrosa e insicura, e sicuramente non incardinabili nelle categorie – anche quelle molto americane – dei buoni e dei cattivi.
(In questo, il film appare meno coeniano di quanto sembri, e più europeo: qui non si racconta l’irrazionalità del fato ma l’oscurità vertiginosa della sofferenza e la sua capacità di destagnazione. Non per nulla, forse, il nome del paese è Ebbing, che significa riflusso, affievolimento).
Le idiosincrasie si stemperano nella solidarietà; i rancori in empatia; le sofferenze in speranze.

Non si tratta di metamorfosi, di conversioni: i diversi personaggi, mi pare, messi di fronte a un “incidente critico”, si rivelano per quel che sono, smettendo semplicemente di sostenere la parte imposta loro dal clima emotivo e dal contesto culturale nel quale sono cresciuti. 
Lo sceriffo accusato d‘inerzia diventa l’occulto finanziatore della stramba provocazione di Mildred; l’agente Dixon, balordo e imbranato (e razzista grossolano al punto da essere emarginato), subisce una strana metamorfosi etica che lo porta ad essere emotivamente vicino alla sua più furiosa denigratrice.
Il personaggio più scavato è ovviamente quello spigoloso di Mildred, la protagonista rabbiosa e dolente, infuriata col mondo (soprattutto coi maschi del mondo) e con se stessa, che non sa perdonare la ferocia bruta di uno stupratore di bambine e l’inettitudine della polizia, ma – soprattutto – non sa perdonare a se stessa il senso di colpa che la tormenta (per il matrimonio fallito e per il difficile rapporto con la fragile figlia adolescente).
Anche Mildred, osservando le imprevedibili reazioni degli inetti che la circondano, riemerge: visto che le indagini non conducono a nulla, decide di mettersi per strada per andare a punire uno stupratore qualsiasi, come Il vendicatore della notte.
E parte proprio con l’ottuso Dixon, l’ex-nemico inconciliabile, perché le loro antitetiche rigidezze sono svanite e si ritrovano somiglianti nel disorientamento.
I due si guardano avendo negli occhi tracce della antica diffidenza, ma le parole che si dicono allontanandosi da Ebbing – “decideremo strada facendo” – sono la chiave di lettura del film, come della loro umanissima esistenza. E della nostra.    












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