A Ebbing, Missouri, un
piccolo centro rurale sperduto nella pancia dell’America, viene stuprata e
uccisa una minorenne di nome Angela.
A sette mesi dall’orrido
delitto non sono ancora stati individuati i colpevoli.
Mildred Hayes (Frances McDormand), la ruvida madre di
Angela, decide di affrontare l’inefficienza della polizia affittando tre
cartelloni pubblicitari sulla strada che porta in paese per affiggere tre
manifesti che accusano lo sceriffo di inettitudine.
Il film racconta le reazioni
a questa provocazione.
In partenza Ebbing, mi
riferisco al paese, appare la rappresentazione dell’America profonda, fanatica
e volgare, xenofoba e misogina, razzista e retorica; che confonde la voglia di
giustizia con la sete di vendetta; ed è narcisista e sbruffona come il suo attuale
presidente.
Tutto a Ebbing è molto
americano: il linguaggio della gente e l’abbigliamento, le case e le botteghe,
il posto di polizia e gli edifici pubblici, le strade e l’assetto urbanistico,
tipico dei nuclei di transito delle carovane dei pionieri dirette nel west.
Anche Mildred, la
protagonista, è molto americana nella sua johnwayniana presunzione di ottenere
giustizia e nella sua indisponente ostinazione nel pretendere che lo sceriffo
faccia lo sceriffo.
Ma la protesta sotto forma di
domande di Mildred-Elettra smuove qualcosa, come un sasso nello stagno.
Lo sceriffo per primo manda
segnali di riconsiderazione e si muove.
E anche lui lo fa con parole
pacate e ragionate, scritte, diverse da quelle volgari e arrabbiate di tutti.
Fra drammi surreali e
commedia grottesca, affiorano i disagi e le fragilità emotive di tutti (proprio
tutti) i soggetti coinvolti che alla fine si svelano diversi, meno manichei di
quanto vogliano apparire, quasi dissociati, portatori di un’intimità più
dolente, ombrosa e insicura, e sicuramente non incardinabili nelle categorie –
anche quelle molto americane – dei buoni e dei cattivi.
(In questo, il film appare
meno coeniano di quanto sembri, e più europeo: qui non si racconta
l’irrazionalità del fato ma l’oscurità vertiginosa della sofferenza e la sua
capacità di destagnazione. Non per nulla, forse, il nome del paese è Ebbing, che
significa riflusso, affievolimento).
Le idiosincrasie si
stemperano nella solidarietà; i rancori in empatia; le sofferenze in speranze.
Non si tratta di metamorfosi,
di conversioni: i diversi personaggi, mi pare, messi di fronte a un “incidente
critico”, si rivelano per quel che sono, smettendo semplicemente di sostenere
la parte imposta loro dal clima emotivo e dal contesto culturale nel quale sono
cresciuti.
Lo sceriffo accusato
d‘inerzia diventa l’occulto finanziatore della stramba provocazione di Mildred;
l’agente Dixon, balordo e imbranato (e razzista grossolano al punto da essere
emarginato), subisce una strana metamorfosi etica che lo porta ad essere
emotivamente vicino alla sua più furiosa denigratrice.
Il personaggio più scavato è
ovviamente quello spigoloso di Mildred, la protagonista rabbiosa e dolente,
infuriata col mondo (soprattutto coi maschi del mondo) e con se stessa, che non
sa perdonare la ferocia bruta di uno stupratore di bambine e l’inettitudine
della polizia, ma – soprattutto – non sa perdonare a se stessa il senso di
colpa che la tormenta (per il matrimonio fallito e per il difficile rapporto
con la fragile figlia adolescente).
Anche Mildred, osservando le imprevedibili
reazioni degli inetti che la circondano, riemerge: visto che le indagini non
conducono a nulla, decide di mettersi per strada per andare a punire uno
stupratore qualsiasi, come Il vendicatore
della notte.
E parte proprio con l’ottuso
Dixon, l’ex-nemico inconciliabile, perché le loro antitetiche rigidezze sono
svanite e si ritrovano somiglianti nel disorientamento.
I due si guardano avendo
negli occhi tracce della antica diffidenza, ma le parole che si dicono allontanandosi da Ebbing – “decideremo
strada facendo” – sono la chiave di lettura del film, come della loro umanissima
esistenza. E della nostra.
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