Il pregio del film sta –
paradossalmente – nell’avere la trama un po’ arruffata e frammentata e nell’essere
squilibrato e scorretto, sconclusionato, quasi sgangherato oltre che iconoclasta
e provocatorio: paradigma delle nostre esistenze sempre un po’ intralciate da
circostanze imprevedibili, specchio delle nostre relazioni sempre un po’
intessute da situazioni aggrovigliate.
Il protagonista, Christian, curatore
del museo d’arte contemporanea di Stoccolma, è impegnato ad allestire una
mostra (con l’installazione dell’opera intitolata The Square, da cui il titolo del film) e a prepararne la campagna
promozionale.
Nelle frenetiche ore che precedono
l’inaugurazione dell’evento, un banale inconveniente gli guasta l’esistenza: tre
abili furfanti, in pieno giorno, nella piazza (the square) gli sfilano di tasca portafogli e telefono, lasciandolo
sbigottito e irritato.
Nel tentativo maldestro di recuperare
le sue cose, s’infila in situazioni sempre più intricate: si trova costretto a
misurare la disponibilità dei suoi amici-collaboratori, ad affrontare teppisti
scombinati e mendicanti imprevedibili, a visitare le periferie (lontane dal suo
universo ordinato), a fronteggiare le assillanti rimostranze di un cocciuto
ragazzino ingiustamente accusato del furto, ...
Nello stesso tempo, sul lavoro, l’armonia
che contraddistingue la sua professionalità è destabilizzata da altri piccoli
accidenti surreali (esilaranti e terrificanti nello stesso tempo):
la conferenza stampa è disturbata dalla
presenza fra il pubblico di un signore affetto della sindrome di Tourette che
lancia insulti osceni (viene il sospetto che sia questa una specie di
rimostranza – “il re è nudo” – contro la presuntuosa ermeticità, per non dire
gratuità, di molte opere contemporanee?);
la cena di gala è guastata
irrimediabilmente dalle violenze angoscianti di un performer che sbarella
scatenando reazioni brutali;
la campagna promozionale, affidata a
due creativi un po’ troppo spregiudicati, scatena le vivaci reazioni della
stampa e mille polemiche sui social;
la giornalista americana venuta ad
intervistarlo, dopo una notte di sesso, lo mette in crisi in un battibecco
surreale contestando il suo ottuso machismo.
Christian è disorientato da questa
catena di incidenti e contrattempi, e ne rimane frastornato, quasi incapace di
reagire.
L’opera d’arte che deve allestire, collocata
nella piazza antistante al museo, consiste in un tubo luminoso, incastonato nel
pavé, che disegna un quadrato perfetto; sulla targa che completa
l’installazione c’è scritto: “il quadrato
è un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi
diritti e doveri”; un aforisma buonista
che appare quasi una provocazione beffarda, considerati gli inconvenienti che
deve affrontare.
Ma così stanno le cose: il
quadrato è la zona franca, la rappresentazione delle condizioni ideali,
l’utopia del migliore dei mondi possibili, l’aspirazione di Christian ad una sorta
di perfezione che dovrebbe essere – ma non è – inattaccabile dall’emergenza e dagli impicci che insidiano la
quotidianità. Ma la vita reale si svolge fuori dal quadrato, nell’universo
capovolto, anzi sconvolto, nel quale sopravvive a stento la nostalgia del
paradiso perduto.
La
storia ruota attorno al mondo dell’arte contemporanea e sfiora anche i temi
della comunicazione di massa, ma l’intento del regista non è quello di trattare
di arte o di mass media. Anche se qua e
là affiorano provocazioni gustosissime che ironizzano sul sensazionalismo dei social,
sulla petulante superficialità dei giornali e sulla teoria dei quindici secondi
(oltre i quali crolla il picco di attenzione dei fruitori di spot); anche se
trapela una sorniona satira sulla fatua velleità di molti artisti contemporanei
(il cui intento principale è quello di épater
le bourgeois), sulla gracilità dell’arte concettuale (con opere modificate
dall’addetto alle pulizie) e sull’estetica del ready-made (per cui la borsa
dell’intervistatrice “ricollocata” ed esposta diventa opera d’arte, come
l’orinatoio capovolto da Duchamp di un secolo fa o la scatola di minestra di
Warhol del 1962).
Il tema reale è quello della nostra
inadeguatezza, della fragilità della natura umana, della difficoltà ad
assumersi responsabilità, dell’ipocrisia perbenista di chi si ferma davanti
alle strisce pedonali ma resta indifferente di fronte alle disuguaglianze e
alle difficoltà degli altri (mendicanti, ladri e incolti).
Anche
l’insistenza sui temi dell’arte a questo riconduce: quasi a voler dire che
l’opera parla se viene ricontestualizzata, così come l’uomo esprime la sua
natura quando viene snidato dal suo bozzolo, fuori dal quale rivela le sue
fragilità, le paure, le crisi esistenziali.
Allo
stesso modo, il discorso sui media, sui social, sulla “viralità”,
sull’informazione, sul marketing, sulla libertà di espressione può essere
ricondotto al tema generale del disorientamento universale che è, nello stesso
tempo, il risultato e la causa degli smarrimenti individuali.
La
civiltà del benessere delimita i suoi spazi (di nuovo “the square”) e non vuole confondersi con il caos del malessere:
finché può – alla faccia della globalizzazione – si arrocca nella sua splendida
indifferenza, nella sua immorale estraneità; pretende ipocritamente di
governare e di dettare le regole della convivenza; è ossessionata per il “politically correct” ma è incapace di
capire la differenza fra estetica ed etica.
Quando
la realtà irrompe, crollano i bastioni e l’equilibrio traballa.
Basta
poco per smascherare l’inconsistenza delle costruzioni etiche, sociali e
religiose (Buñuel?):
le minime contrarietà rivelano la bestia e fanno esplodere la violenza
spaventosa che ribolle sotto l’epidermide lucida della nostra agorà (“the square”).
Questo
forse racconta la vicenda del brillante Christian, uomo fragile che affonda nei
dilemmi di coscienza, paradigma della reversibilità delle magnifiche sorti e
progressive, con la cultura (l’educazione) che confligge con la della natura primitiva
(istinto) e soccombe; forse perché non è altro che una maschera.
Molte
le sequenze memorabili; quella strepitosa, e già ricordata, del performer che
si fa prendere la mano dal ruolo che deve recitare (con i convitati paralizzati
di fronte alla violenza e incapaci di solidarietà); o quella inquietante del
disturbatore alla conferenza stampa; o quella esilarante dell’addetto alle
pulizie nel museo che manovra la sua spazzatrice aspirante in mezzo a
installazioni fatte coi detriti e ceneri (“memento
homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”).
Splendidi
i dialoghi: esemplari quelli (alla Jonesco) fra Christian e la giornalista:
l’intervista in cui si parla di arte, il bisticcio in camera da letto col tira
e molla del preservativo, quello “del giorno dopo” in cui Christian non riesce
ad ammettere la sua apatia postcoitale.
Indisponente
la schermaglia col ragazzo straniero che, ingiustamente accusato del furto,
pretende le scuse, ma non viene ascoltato (ah! la petulanza di chi proclama i
propri diritti!); e appaiono angoscianti, insostenibili, le sue invocazioni di
aiuto che risuonano nella tromba delle scale.
Spassose
le due scene di Christian quando (alla Taxi
driver) prova allo specchio il discorsetto di presentazione
dell’installazione e quando registra allo smartphone (specchio virtuale) il
messaggio autoassolutorio da inviare al ragazzo accusato del furto.
Significative
anche alcune brevi sequenze come quella del vernissage con gli intervenuti
redarguiti dallo chef perché più interessati alle pizzette che all’arte; o quella
del protagonista che, sotto un acquazzone, rovista fra i rifiuti in cerca di un
numero di telefono gettato nella spazzatura (e sembra nuotare in un quadro di
Pollok); o quella della mendicante che supplica un panino e lo gradisce senza
cipolla; o quella paradossale e veramente emblematica del barbone messo a guardia
delle borse dello shopping.
Il mondo scricchiola, proprio come un’altra delle opere concettuali esposte nel museo, costituita da
una montagna di sedie accatastate sul bianco abbacinante di una stanza vuota.
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