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Paterson fa
l’autista di autobus a Paterson, nel New Jersey, e scrive poesie.
La moglie Laura
dipinge tessuti (abiti e accessori per sé; muri, tende e decori per la casa)
invariabilmente in bianco e nero (alla Courrèges) e sogna carriere improbabili
come cantante.
I due vivono la loro
quotidianità senza scosse: hanno raggiunto un equilibrio fatto di piccoli gesti
e insaporiscono il loro rapporto di attenzioni abitudinarie spolverate da gesti
di tenue dolcezza. Lei apprezza le poesie minimali di lui (delle quali è
l’unica lettrice); lui si sorprende ogni giorno (un po’ sconcertato, a dire il
vero) delle produzioni da bricoleuse compulsiva di lei.
Ogni mattina, al
risveglio, i due indugiano fra il torpore del sonno a quello della tenerezza prima
di affrontare la giornata con la limpida tranquillità di chi ha trovato nella
pacata routine la chiave della serenità.
Sette sipari
per seguire e raccontare la settimana del giovane autista di linea, fatta di giornate
ordinarie, pianamente quiete nel ritmo, serenamente monotone, leggermente
increspate da fragili sentimenti.
L'uscita
di casa (evitando puntualmente di strusciare sul cespuglio fiorito); il
tragitto sempre uguale; la guida dell'autobus ascoltando frammenti di discorsi
che aprono piccoli spiragli sulla vita di altri; le poesie scritte per se
stesso (semplici come la routine, dolci con un pizzico di inquietudine); il
pranzo consumato sulla panchina di fronte alla cascata; il rientro invariato,
col raddrizzamento quotidiano della cassetta della posta; la sorpresa
quotidiana per le creazioni grafiche in bianco e nero che la moglie realizza
sui tessuti; la cena; la passeggiata col cane; la sosta al bar (dove può
capitare di intravvedere spiragli di vite diverse e inquiete).
E
mille altri piccoli significanti frammenti: il cane brontolone; il collega che
non riesce che a raccontare le sue minute infelicità; il barista solitario; la
ragazza con l’ex fidanzato assillante; la bambina poetessa; il guasto meccanico
all’autobus.
La
vita si snoda nel tempo sempre uguale viaggiando su binario, su due rotaie
parallele, come i gemelli che compaiono in piccolissimi flash: la rotaia della
vita reale che si svolge routinaria e la rotaia della vita emozionale che nutre
di vaghe armonie la normalità e rende aurea la mediocritas.
Tutto
sembra immobile e prevedibile, ma sotto questa apparente fissità trapelano emozioni
dolci e respira leggera la vita.
Tutto
appare rarefatto, ma la chiarezza intride questi acquarelli (o forse sono stampe
giapponesi che rimandano ad equilibri zen). Piccoli quadri che sembrano slavati
solo perché raccontano con leggere pennellate le sfumature delicate della
consuetudine.
Il film è delizioso, tenero, minimalista, come le poesie che
lo accompagnano, come la vita dei protagonisti.
Non poteva essere
altrimenti: se si vuole parlare della fragilità dei sentimenti, è necessario
farlo sottovoce; è necessario farsi prestare gli accenti dalla poesia, che
aiuta a dire cose che non possono essere dette con le voci della ragione, che non salva la vita ma aiuta a sopravvivere decifrando la banalità
dell’esistenza e restituendo senso all’insensatezza della quotidianità.
Per
questo vale la pena fare mille e mille chilometri (come quelli compiuti dal
giapponese per arrivare a Paterson) per raccattare un brandello di poesia o per
regalare un taccuino bianco che aiuti a ricominciare.
Alla
fine però, un dubbio metafisico rimane sospeso nell’aria come un temporale
pronto a esplodere: per quale ragione Jarmusch insiste nel mostrarci la foto di
Paterson vestito da marine? un ritratto che inquadra un Paterson diverso e non
c’entra nulla con il clima soft del film? una faccia da soldato messa lì sul
comodino a ricordare tempi remoti, condizioni differenti, esperienze sepolte?
Che
sia lì la chiave interpretativa – acida – di tutto l’ambaradan?
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