Film alquanto strano, cupo e a tratti sgradevole, forse eccessivamente
ambizioso (il che non guasta in un esordiente); opera non sempre del tutto
leggibile, ma comunque ansiogena (ma si sa che le paure inspiegabili sono più inquietanti
rispetto a quelle riconducibili a pericoli concreti).
Fa pensare a Il nastro
bianco di Haneke, non solo per la collocazione storica dei fatti (che si
svolgono a ridosso della grande guerra del 14-18), ma anche per i modi allusivi
della narrazione e per le atmosfere rarefatte, cariche di indecifrabili presagi.
Ma, a legare i due film, c’è soprattutto il tema (che mi pare sia, nella
sostanza, l’incapacità degli adulti di capire il malessere dei figli); la tesi di
fondo (secondo cui l’anaffettività genera mostri e la comparsa di certe devianze
non è altro che il risultato della cattiva educazione); il tentativo di trovare
spiegazioni psichiche all’origine delle
dittature.
Siamo in Francia, nel 1918.
Un diplomatico americano che fa parte della delegazione USA
incaricata della stesura del Trattato di Versailles s’insedia in un fatiscente
casale di campagna nei pressi di Parigi con la moglie (di origine tedesca) e col
figlio dodicenne (il protagonista) di nome Prescott. Con loro vive anche una
dolce bambinaia; e la casa è frequentata quotidianamente da una fragile giovane
istitutrice.
Il padre è a Parigi. La madre, sempre presente (e sempre
vestita di nero), non è felice (frustrata nel ruolo di moglie e apatica in
quello di padrona di casa) e ha col figlio un rapporto sghembo: incapace di
amarlo, l’ha viziato e vezzeggiato per tutta l’infanzia, vestendolo come una
femmina e lasciandogli crescere i lunghi capelli biondi; ma ora, con l’inizio
della pubertà e il naturale insorgere dei primi segnali di controdipendenza,
tenta di imporsi, ispirandosi ai modelli della sua educazione rigorosamente
cattolica e scatenando reazioni imprevedibili con questa sua incoerente conversione
dal permissivismo alla severità bigotta.
Prescott, che vive con disagio le sempre più pressanti
imposizioni della madre e mostra insofferenza verso l’obbligo di frequenti
preghiere o il dovere di partecipare alla recita natalizia in chiesa; sfoga
questo suo malessere con infantili marachelle (la prima delle quali, a inizio
film, è una sassaiola contro i fedeli che escono da messa la notte di Natale);
e presto passa ad assumere atteggiamenti più esplicitamente oppositivi (rifiuta
di dire le preghiere della sera, di mangiare un piatto sgradito, di studiare le
favole di La Fontaine, ...).
Il padre è chiamato in causa dall’impotenza della madre; ma
l’insolita complicità persecutoria dei genitori inasprisce, in una spirale ascendente,
la voglia di insubordinazione di Prescott.
Quando la madre licenzia la bambinaia, unica in casa ad avere
atteggiamenti d’indulgenza e di tenerezza, la situazione precipita.
Il ragazzo diventa rabbiosamente oppositivo; e quando
intuisce che il padre corteggia l’istitutrice e la madre ha un qualche ambiguo rapporto
con un giovane amico di famiglia, s’invelenisce per le storture cui assiste e
per le ipocrisie che è costretto a subire e finisce per esprimere il suo
malessere con un crescendo di ribellioni incontrollabili, provocatorie,
velenose, isteriche.
Riuscirà a sgretolare il padre autoritario e la madre arida
e bigotta, entrambi incapaci di comprendere; e a modificare, direttamente o
indirettamente, il destino della bambinaia e dell’istitutrice; e le relazioni e
altri destini ...
I suoi scatti d’ira costituiscono i tre atti in cui è diviso
il film, preceduto da un prologo notturno (tenebroso e cupo) e chiuso da un
epilogo (fragoroso e coloratissimo): entrambi inquietanti per i gravi segni di
premonizione che contengono.
La scansione del film echeggia l’ossatura delle tragedie.
La sceneggiatura è asciutta, reticente, neutra: descrive
senza argomentare, mostra senza proclamare tesi, al punto che lo spettatore è
incerto, indeciso se parteggiare per le severità genitoriali o per le legittime
tendenze eversive del bambino infelice.
Le ambientazioni, interni ed esterni, suggeriscono degrado e
sfacelo.
La regia (la successione delle sequenze, l’uso delle luci,
le inquadrature, i movimenti di macchina, ...) è destabilizzante per un certo
sperimentalismo e sconcerta quanto la oppositiva caparbietà di Prescott.
La fotografia è accuratissima: l’oscurità prevale; certe
inquadrature, ferme sui personaggi, richiamano Velasquez; alcune scene d’interni
tenuamente rischiarate fanno pensare a Barry Lyndon di Kubrick.
La musica dirompente ha la solennità di una sinfonia o di
un’opera lirica e accompagna le sequenze “a contrasto”, e per questo è allarmante
e contribuisce ad aumentare l’inquietudine.
L’epilogo fastidiosamente prorompente come un’Apocalisse prefigura
la nascita delle dittature del XX secolo, che certamente hanno avuto origine
dalle terribili clausole imposte ai paesi vinti proprio nella Conferenza di
Versailles (analoghe alle vessazioni parentali su Prescott).
Ma la storia del piccolo incontrollabile Prescott non rappresenta,
come suggerirebbe il titolo, l’infelice infanzia di uno dei grandi dittatori
europei (per ragioni anagrafiche oltre che geografiche); o la rappresenta solo
allegoricamente. Sicuramente ritrae l’educazione frustrante dei milioni di infelici
gregari che hanno permesso l’ascesa di tiranni farabutti.
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