La bottega dei Coen sforna un nuovo film affidato alla regia
di George Clooney (che come attore viene cooptato nei film diretti o prodotti
dai due geniali fratelli ogni volta che c’è da impersonare uno stupidotto).
Il marchio coeniano (quello di Fargo, per intenderci) è infatti evidente in questo noir che
mescola violenza e comicità, con dei cattivi alquanto maldestri che
architettano piani criminali complicati e si impegolano poi nelle proprie
trame, ritrovandosi in situazioni senza vie d’uscita e finendo per franare,
vittime delle proprie macchinazioni.
Siamo negli anni ’50, nella civilissima cittadina di
Suburbicon, una specie di Pleasantville colorata come una cartolina, ordinata e
linda, con l’impianto urbanistico a scacchiera, strade aperte, automobili
lucide, villette a due piani circondate da prati perfettamente rasati e senza
steccati, abitate da famigliole benestanti, bambini che lanciano palle da
baseball, mamme alle finestre, uomini con cravatta, tutti ben vestiti e
pettinati, socievoli coi vicini, educati e gioviali. Un posto dove è facile
immaginare che aleggi nell’aria il profumo delle crostate di mele.
Un giorno, in uno di questi splendidi villini – tutti rigorosamente
abitati da wasp (white anglo saxon protestant) – arriva una famiglia di colore:
civilissima, benestante, medio-borghese, amabilissima e riservata, ma pur
sempre di colore.
Qualche giorno dopo, in un cottage lì vicino, due mascalzoni
sequestrano in casa una famiglia, la rapinano e ci scappa un morto.
La città intorpidita dentro il suo sonnacchioso stato di
benessere è scossa da questi avvenimenti; il magico equilibrio improvvisamente è
infranto, i pregiudizi affiorano e crescono incontrollati, le paranoie nascoste
erompono ed esplodono.
Succede di tutto: il piccolo universo si frantuma e l’idillio
color pastello diventa tragedia nera.
Il film scoperchia sia l’ipocrisia che regge le dinamiche
familiari, sia la falsità conformista che governa i rapporti sociali: la
famiglia si rivela un nido soffocante abitato da insoddisfatti rancorosi, avidi
e perversi, pronti a distruggersi a vicenda (con padri-orchi e madri-matrigne);
e la “comunità” appare intrisa di pregiudizi infondati, propensa a vedere
minacce inesistenti e alzare steccati, ma incapace di cnoscere o controllare le
proprie esplosive ossessioni.
Suburbicon è il paradigma di altri luoghi (Carlotteville,
per esempio) e gli anni ’50 non siano poi così lontani.
Clooney gioca bene le sue carte, ma non riesce (o non vuole)
liberarsi dai condizionamenti degli sceneggiatori.
Il film riecheggia inevitabilmente i canoni coeniani.
Nella costruzione della storia tornano le trame illogiche,
gli intrecci imprevedibili, i personaggi stravaganti e grotteschi, le
esasperazioni beffarde e gli assurdi coups
de théâtre (tutti moduli narrativi omeopatici, efficaci nel rappresentare
l’incoerenza dei destini).
Nei contenuti vengono riproposti temi già sviluppati che
mettono a nudo l’inconsistenza dei legami all’interno della famiglia (tomba
dell’amore) e stigmatizzano il perbenismo delle collettività e l’ipocrisia malfaisant degli irreprensibili
benpensanti ossessionati dalla supremazia bianca.
L’America di Trump ha di che riflettere.
Ma la subordinazione maggiore è data dalla “filosofia” di
fondo – quella dell’assurdo – prepotentemente
coeniana e kafkiana nello stesso tempo: una visione del mondo nichilista (declinata
con l’irriverenza scorretta e il sarcasmo) che vede la malvagità mai scalfita
dagli sterili richiami ai principi superiori dell’etica; che si cristallizza nella
fredda consapevolezza che il prevalere delle forze del male o di quelle del
bene è affidato al caso; che falcia la fede nel libero arbitrio, considerato che
il fato, destino cieco, travolge chi capita sul suo percorso.
Una subordinazione consapevole, se si considera il tentativo
di correzione, evidentemente forzato, che vede tutti i cattivi soccombere –
fatalmente – col film che impenna verso un finale affrettato ma aperto alla
speranza.
Letto da questa ultima prospettiva, filosofica più che
politica o sociale, il film – tolto il finale posticcio – è molto più cupo di
quanto possa sembrare.
Alcuni passaggi strappano delle risate, è vero. Ma si sa che
la farsa amara è da sempre più efficace dei trattati filosofici, più crudele
delle tragedie retoriche e roboanti, più acida dei pamphlet.
L’angoscia impotente del bambino (che dilaga dal suo sguardo
inquietante) intride l’aria tiepida di Suburbicon e, traboccando dallo schermo,
ci racconta quanto sia gelida e irrespirabile la nostra atmosfera.
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