Questa non è
una recensione ma una dichiarazione d’amore.
Perché Amarcord non è un film, è il Cinema.
Perché Amarcord non è un film, è il Cinema.
Fellini infila uno dopo l’altro, in una magnifica confusione, le nostalgie della sua vita di “prima”, quella vissuta in provincia, fatta di mitologie paesane, di tempo che scorre impercepito. E concentra con una densità incredibile gli stupori non dimenticabili delle nostre infanzie, le eccitazioni delle pubertà, i sogni archetipi dell’adolescenza ai quali si agganceranno tutti i sogni futuri, e le smanie irripetibili della giovinezza che, trasfigurate dal rimpianto, saranno rivisitate per tutta la vita.
Il
mondo-paese è una placenta da cui è necessario evadere; e la voglia di scappare
è forte quanto più è tenace l’attaccamento che ti lega (“Libra nos a Malo”,
dice Meneghello). Al momento dello stacco non ti giri indietro, spavaldamente
vai e non ti accorgi di portarti dentro e sulla pelle la sensazione del suo
calore e i suoi odori, impercepibili quando vi sei immerso, ineliminabili con
il distacco, prepotentemente rievocativi “dopo”, come la petite madeleine di
Proust.
I ricordi di
Fellini – appunto perché filtrati dalla distanza spazio/temporale e dalla
distanziazione artistica – sono nitidi e nello stesso tempo alterati dalla
potenza della nostalgia che li sublima: e quindi affiorano vivi quanto più sono
evanescenti, reali perché surreali, lucidi e folli, comici e venati di
struggente amarezza.
Questa è la ragione per cui il regista (che ha dichiarato “sono per il cinema-falsità”) si rifiuta ostinatamente - con grande disperazione dei produttori - di girare nei luoghi in cui ha vissuto e di usare ambientazioni reali, ma si fa costruire nei teatri di posa il Borgo con i suoi portici e le sue piazze, vuole mari e onde fatti con lenzuoloni di plastica nera, fa innalzare una sagoma inverosimile del Rex, chiede arredi su misura per le sue magnifiche ossessioni, e pretende brine e nebbie artificiali, polveroni e neve finta, e un fioccare inverosimile di soffioni (le mitiche “manine” della scena iniziale, annunciatrici della primavera).
Questa è la ragione per cui il regista (che ha dichiarato “sono per il cinema-falsità”) si rifiuta ostinatamente - con grande disperazione dei produttori - di girare nei luoghi in cui ha vissuto e di usare ambientazioni reali, ma si fa costruire nei teatri di posa il Borgo con i suoi portici e le sue piazze, vuole mari e onde fatti con lenzuoloni di plastica nera, fa innalzare una sagoma inverosimile del Rex, chiede arredi su misura per le sue magnifiche ossessioni, e pretende brine e nebbie artificiali, polveroni e neve finta, e un fioccare inverosimile di soffioni (le mitiche “manine” della scena iniziale, annunciatrici della primavera).
La realtà
filtrata dalla fantasia risulta più vera di quella ricalcata. “L’unico vero
realista è il visionario” sostiene
Fellini, per cui l’onirico è molto più efficace del vero, è più
adeguato a rappresentare le trasfigurazioni mitiche del passato, le residue
atmosfere, emotivamente più vive dei ricordi, più esaltate, più “visionarie”,
più impregnate di calori e umori.
La sfilata dei personaggi – archetipi, non macchiette – è esilarante. Il ricordarli ci permette di ripercorrere il film, di rigoderne gli episodi salienti: la polposa Gradisca (Magali Noël) e la metafisica tabaccaia con le sue “bombardone” (Maria Antonietta Beluzzi); la selvaggia e libera “volpina” (Josiane Tanzilli) e la candida Aldina; il fisarmonicista cieco di Cantarèl (Domenico Pertica) e Biscein, il venditore di bruscolini; il sultano con l’harem al seguito e le coreografie surreali delle concubine; i litigiosi e legatissimi genitori di Titta (Pupella Maggio e Armando Brancia) ed il nonno (Giuseppe Lanigro) che non smette di vantare la sua virilità e poi si smarrisce nella nebbia (“Mi sembra di non stare in nessun posto. Mo se la morte è così... non è mica un bel lavoro. Sparito tutto: la gente, gli alberi, gli uccellini per aria, il vino. Tè cul!”); il muratore Calzinazz (“Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni, fazzo i mattoni anche me', ma la casa mia n'dov'è?”); l’avvocato in bicicletta; lo zio Teo, il pazzo (“Voglio una doooooonnaaaaaa!”) e la suorina nana; la sfilata dei professori col preside carducciano (Zeus) e i compagni di classe di Titta, Naso (Alvaro Vitali), Gigliozzi (Bruno Lenzi), Cicco, Ovo, Candela.
E poi le feste di paese, il mercato, la sfilata del 21 aprile e il sabato fascista, le nozze sulla spiaggia, il transito del Rex, i culi delle contadine in bicicletta alla festa di Sant’Antonio, il fulmineo passaggio della Millemiglia, la scuola, le confessioni, il pavone nella neve, i vitelloni sulla terrazza deserta del Grand Hotel chiuso in una nebbiosa sera d’inverno.
Siamo in presenza di una trama sfilacciata, di un accozzaglia di situazioni slegate fra loro ma fortemente inzuppate di un unico spirito e allacciate dal filo stretto dell’amore incondizionato per le origini (riconoscibilissimo il tocco poetico di Tonino Guerra a cui va gran parte del merito per questo capolavoro).
A Gradisca che si sposa e parte, Cantarèl dedica queste parole:
“Anche se il mondo è pieno di roba bella, pieno di paesi che piacciono di più del Borgo, appena cade il sole e viene la sera, seduta su una sedia chissà dove, piano piano dentro la tua testa, questo posto diventa il più bel posto del mondo. Ma come farai a stare lontana dal Borgo?”
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