Vassene il tempo e
l’uom non se n’avvede (Dante, Commedia, Purgatorio, IV, 9).
Linklater ha avuto il coraggio di raccontare 12 anni di vita
di una famigliola americana seguendone
in diretta l’evoluzione e impiegandoci quindi 12 anni. [A ben pensarci,
trattandosi di Linklater, più che di coraggio, si dovrebbe parlare di
ossessione per il trascorrere del tempo, già rivelatasi nella trilogia Prima dell’alba, Prima del tramonto, Prima
di mezzanotte in cui sintetizza la storia di una coppia – di due vite –
raccontandone i passaggi topici].
Il regista (texano ma moderatamente americano) si permette
di far cadere la scelta su una famiglia normale, molto yankee (bibbia e fucile),
quasi paradigmaticamente wasp. La bella coppia è ovviamente separata ed ha,
altrettanto ovviamente, due splendidi figlioli. La mamma Olivia (Patrice
Arquette) è belloccia con qualche inquietudine (quanti traslochi!) e molto
senso di responsabilità; il padre Mason sr. (Ethan Hawke) è estromesso e
defilato ma non per questo assente; il figlio maschio (Mason jr. - Ellar
Coltrane), che ha 8 anni all’inizio della storia, attraversa la più ordinaria
delle adolescenze fino al distacco del college; la figlia femmina (Samantha - Lorelei
Linklater, figlia del regista) è una impertinente di poco più grande di Mason
Jr., alla quale, mi pare, è affidato il ruolo quasi esterno di occhio critico
di tutte le vicende.
Famiglia normale, dunque, e storia normale, di vite normali,
sanza 'nfamia e sanza lodo: nel
corso del film non succede nulla di clamoroso, non ci sono passaggi decisivi,
svolte radicali; anzi ci sono momenti di stasi, un briciolo di noia, diverse
incoerenze e disomogeneità (anche “tecniche”, di montaggio e ritmo,
fotografia), dialoghi banali, scarsi approfondimenti psicologici, prospettiva
neutrale (“vi dico quel che si vede”).
Ma forse in questa “ordinarietà” sta il valore del film.
La legge fondamentale del cinema è l’elissi temporale per la
quale il tempo reale è una cosa e il tempo filmico è tutt’altro.
“Il dramma è come la vita, ma con le parti noiose tolte”,
diceva Hitchcock.
Il cinema, per sua regola, manipola il tempo e lo piega alle
sue esigenze; per convenzione, tende a raccontare eventi o momenti
paradigmatici, a ritagliare avvenimenti o episodi d’impatto, a usare forzature
artificiose, a condensare effettacci, a isolare e proporre scene di forte
carica, a selezionare dei climax individuando circostanze di particolare
intensità (come risulta smaccatamente evidente nei film di “genere”, triller o
western, erotici o horror, comici o musicali).
Linklater qui non usa il tempo ma si lascia usare, trasgredisce
tutte le regole e le convenzioni e va via liscio, racconta la routine volendo
puntare a rappresentare (e sottolineare) non la drammaticità della vita (non
sempre presente) ma quella inevitabile del tempo che scorre.
[Un po’ come ha fatto Truffaut, in film diversi e in altri
modi, riproponendo il suo alter ego Antoine Doinel nelle sue differenti
stagioni; un po’ come fanno, forse inconsapevolmente e per scelta inevitabile, i
vari harripotter o – absit iniuria verbo
– le soap decennali (penso a Dallas), costrette a modificare le storie per il
cast che invecchia, le bellone che si afflosciano e i coprotagonisti che
defungono].
Ecco, in questo ruit
hora sta il senso angoscioso del film.
Se non hai una sensibilità pachidermica, ti ritrovi a
pensare che se il compendio narrativo di Boyhood fila via in 164 minuti, forse
la tua vita potrebbe essere descritta in 164 secondi. Vista infatti in
prospettiva “storica” e considerata ad una giusta distanza emotiva, non dura
più di un battito di ciglia, ne ha la stessa significanza, produce gli stessi effetti
e non scatena uragani in nessuna parte del mondo.
La consapevolezza (per ognuno) di non essere l’ombelico del
mondo è rara. E chi la raggiunge, ha la naturale propensione a dimenticarsene.
Per sfangare la giornata ognuno di noi manipola la realtà e finge di avere
(possedere, controllare, organizzare) il tempo, proprio come fanno i registi (e
gli scrittori) nel costruire le loro storie.
Qui Linklater rovescia il banco, fa quasi coincidere la
realtà (profilmica) con la finzione, invitandoci (costringendoci) a uscire
dalla dissimulazione autoconsolatoria per fare i conti con la realtà reale;
decide di occuparsi del tempo vero, non della memoria (ed in questo è
antifelliniano), della normalità, non degli eccessi; ci propone la vita, non il
suo riassunto.
Di passaggio in passaggio, cambiano le case, gli
arredamenti, gli accessori, le automobili, l’abbigliamento, le pettinature, la
musica. Pare di sfogliare un vecchio album di famiglia perso di vista dopo un
trasloco. Arquette prende qualche chilo, si fa sorprendere trasandata; il
marito ingrigisce e giovanileggia; la ragazza cresce di seno e deborda di culo
prima di trovare il look che mimetizzi o valorizzi le sue robuste
caratteristiche somatiche; il ragazzino passa l’età della brufolera. Tutti modificano
qualche convinzione, smarriscono qualche illusione e patiscono o conquistano
qualche distacco.
E noi, fuori dal cinema, ci ritroviamo a sbirciare la nostra
immagine, fortunatamente confusa, riflessa dalla prima vetrina che incontriamo.
Chi non vuole indossare gli occhiali del pessimismo
esistenziale può legger il film secondo un’altra prospettiva.
Può, chiarita la questione della degenerescenza
inarrestabile, imparare ad accettare i cambiamenti, adattarsi senza nevrosi
all’ordinarietà, evitare scosse (come fanno tutti i protagonisti del film), accontentarsi
di una piccola vita rarefatta, senza trama, fatta di aspettative e
frustrazioni; riderci sopra e ritagliarsi brevi spazi significativi, punteggiati
di piccole impercettibili felicità.
E accettare di guardarsi un filmettino senza colpi di scena,
coerente con la vita.
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