Il
film racconta gli ultimi anni della vita di Turner, presentandoci il paesaggista
inglese alla soglia della vecchiaia e al culmine della carriera.
Poiché
lo scorcio di biografia non può riservare sorprese dal punto di vista narrativo
e offrire particolari spunti per la trama, al regista non resta che evidenziare
la mesta quotidianità dell’uomo privato che va verso la decadenza e riferire le
idiosincrasie dell’uomo pubblico.
Il
quadro è desolante: il vecchio Joseph Mallord William è un egotista, scontroso,
burbero, asociale, incapace nutrire sentimenti o di mantenere legami affettivi:
subisce infastidito le visite della vecchia e sfatta amante che non riesce a
estorcergli affetti e sussidi per figlie e nipoti; e non è capace di un gesto
gentile o di una parola di considerazione per la fedele serva che lo accudisce
e gli si concede in frettolosi pastrocchi sessuali. L’unico affetto che coltiva
è quello nei confronti del vecchio padre, aiutante di bottega, la cui morte lo
lascia in un’ingrugnita depressione; la sola relazione apparentemente “normale”
è quella che intrattiene con un’anziana affittacamere di Calais, con cui
finisce per convivere (e tutti noi ci chiediamo come faccia una così garbata
signora a sopportare un vecchio tanto selvatico e repellente).
Fuori
di casa non va meglio. Turner è un misantropo asociale, un orso, e le uniche
relazioni pubbliche che tiene, ovviamente problematiche, sono quelle col milieu
accademico inglese della prima metà dell’Ottocento, un contorno di comparse
simili a mummie composto da intellettuali incartapecoriti, critici boriosi,
colleghi invidiosi, mercanti avidi, committenti neoricchi.
Dimostra
del coraggio Mike Leigh a fare un biopic senza intreccio, ad affrontare il
ritratto di un soggetto così complesso senza regalarci nemmeno un climax
emozionale e a raccontarci il decadimento di un vecchio senza nemmeno tentare
di farcelo piacere o di sollecitare perlomeno commiserazioni empatiche.
Capita
raramente che un biografo infierisca sul suo “eroe” fino a suscitare nei suoi
confronti disgusto e repellenza: in ben due scene – oltretutto agli inizi del
film, così, tanto per mettere le cose in chiaro – il laido Turner viene
accostato al maiale: la prima volta quando si ingozza di guancia suina lessa
tagliando bocconi dalla testa di porco presentata intera nel piatto; la seconda
quando grugnisce durante un veloce orgasmo con la serva appoggiata alla
credenza.
Viene
il sospetto che l’esasperazione dei toni abbia due scopi: quello di trasformare
il personaggio in una caricatura e di rendercelo simpatico (un po’ come fa
Molière con il misantropo Alceste o con l’avaro Arpagone) e quello di giocare
“a contrasto”, prendendoci in contropiede, di caricare cioè al massimo la contrapposizione
fra la finezza dell’artista e la grossolanità dell’uomo e di sottolineare con
vigore che in Turner gli istinti animaleschi potevano (dovevano?) essere
appagati in fretta per lasciar spazio alla vitale, irrefrenabile voglia di
VEDERE (paradigmatica la scena del pittore che si fa legare in cima all’albero
maestro di una nave per contemplare una tormenta di neve, come Ulisse e le
Sirene).
C’è
un momento – uno solo – nel film in cui Leigh azzarda una sintesi della
bipolarità di Turner e cerca un punto di impacciata convergenza fra tensioni
nobili e istinti, ed è quando mostra il pittore incantato davanti a una giovane
pianista: ci si aspetterebbero avances grossolane, ma il frastornato pittore chiede
alla timida artista di suonare Purcell e tenta di accompagnare con la sua
sgraziata voce Il lamento di Didone.
Superba,
nel film, la qualità pittorica delle sequenze: quasi una competizione di Leigh con
Turner.
Turner
– sappiamo – è ossessionato dalla luce, dalla rappresentazione della luce,
della possibilità che la luce ha di svelare l’intima essenza della realtà, di
modificare i paesaggi coi suoi riverberi, sconvolgere il cielo e le nuvole con
barlumi e opalescenze, scompigliare il mare con sprazzi e luccicanze,
trasfigurare gli oggetti rimarcandone o annullandone i contorni con
l’imprevedibile gioco di ombre e chiarori.
Anche
Leigh (assonante con light, nomen
omen) si lascia possedere dalla stessa ossessione: accompagna (con riluttanza)
il pittore nelle escursioni sulle spaziose spiagge e nelle sconfinate lande; lo
presenta mentre schizza appunti frenetici di scorci e impressioni eccitate di
crepuscoli o temporali, spesso stagliato in controluce come una silhouette
barocca (o, meglio, citando Il
viaggiatore sopra il mare di nebbia di Friedrich); lo segue nei docks lungo
il Tamigi, sulle banchine di porticcioli ingombre dei banchetti di pescatori, nei
vicoli dei quartieri urbani degradati (e qui ricorda le ambientazioni delle
incisioni satiriche di Hogart); si sofferma (con compiaciuta insistenza) negli
interni bui, su scalette ripide illuminate da tagli di luce espressionisti, in
bugigattoli (dickensiani) rischiarati a pena da una soffusa luminosità
lattiginosa.
Spesso
le squallide stanze schiudono finestre abbacinanti su paesaggi – appunto – turneriani.
Spesso
i tavoli illuminati di scorcio appaiono ingombri di oggetti domestici,
barattoli e vasi, pennelli abbandonati (come nature morte).
Straordinarie
le inquadrature: dai campi lunghissimi sulla brughiera (con cieli lividi) alle
claustrofobiche riprese al chiuso; dai piani americani con prospettiva dal
basso (a rendere grotteschi fino all’imbarazzo i borghesi della bella società
londinese), fino ai primissimi piani impietosi sulle occhiaie dell’ex-amante,
sulla psoriasi della serva, sui denti marci dello stesso Turner.
La
lunghezza del film e l’inconsistenza della trama rendono il film impegnativo.
Ma
la bella scena finale della locandiera-amante che, dopo la morte del pittore,
netta meticolosamente i vetri della finestra affacciata sul mare ci risarcisce
della fatica.
Turner è un gran pittore. Non ho visto il film. A leggere mi pare un bel film, a tinte forti e toni alti.
RispondiElimina