In
un liceo sloveno, l’inspiegabile suicidio di una ragazza scatena fra i compagni
di classe di una reazione di dolore sordo che trova sfogo in una contestazione rabbiosa
nei confronti di un professore di tedesco, intransigente e gelido, arrivato per
rimpiazzare una collega in maternità, permissiva ed empatica.
Il
corto circuito determinato dal lutto e dallo stress fa saltare tutti gli
equilibri già precari – verticali e generazionali, trasversali e culturali,
professionali e ideologici – fra insegnanti, alunni e genitori.
Le
insofferenze adolescenziali si scontrano con le inadeguatezze educative; le
fragilità emotive scompigliano gli incerti principi etici; il conflitto mette
in crisi le teorie pedagogiche apparentemente condivise; esplode la miscela di sentimenti
e risentimenti.
La weltanschauung
va in affanno e il patto educativo si scardina.
Assistiamo
alla rissa fra chi proclama il valore della disciplina e chi sostiene l’efficacia
del coinvolgimento empatico o almeno della negoziazione; all’antitesi fra i
propugnatori dell’istruzione e i caldeggiatori dell’educazione.
L’invocazione
e il bisogno di autorità sono frustrati dalla scarsità di autorevolezza; la
necessità di gerarchie e regole che richiedono obbedienza e rispetto stride con
la sete fisiologica di autonomia; il valore dei divieti si contrappone all’efficacia
della complicità amicale; il partito del fare collide con quello dello stare
insieme …
In
questa bolgia intricata, il regista si schiera, accendendo prepotentemente i
fari sulla crisi della genitorialità iperprotettiva e della pedagogia “moderna”
che insieme allevano ragazzi deresponsabilizzati e insofferenti alle regole,
cuccioli mai maturi, esseri fragili e disadattati, incapaci di reggere dolori o
frustrazioni.
Peccato
che a sostegno di questa posizione scelga di creare un personaggio improbabile
nella sua gelida compostezza, rigido come un baccalà, emotivamente coriaceo,
anaffettivo al limite dell’ebetudine. Un extraterrestre che transita indenne
fra le macerie esasperantemente muto, trattenendo emozioni ed espressioni,
parole e gesti.
L’eccessiva
schematizzazione non risparmia i comprimari: i poveri insegnanti sono in
affanno, disorientati assertori di fruste concezioni pedagogiche; la preside ha
sue precise strategie ammantate di menagerialità ma sostanzialmente
equiparabili a quelle del Direttore Didattico de Il maestro di Vigevano (Petri, 1963), il cui motto era “Quieta non movere et mota quietare”; i
ragazzi appaiono fossilizzati in tipicizzazioni da manuale (il secchione, l’introverso,
il leader, l’emarginato, il creativo, il tendenzialmente nerd, il mezzo hippy, la
simil-emo, il quasi-punk, gli inscindibili fidanzati) e – alla faccia della
contrapposizione generazionale – ricalcano, sia pure in modalità diverse, gli
atteggiamenti scombinati dei genitori, ne sono lo specchio deformato o la
proiezione esasperata e ne prefigurano lo sconsolante destino. (Confermandoci
anche nella convinzione ovvia che la micro-comunità costituita da una classe
scolastica rispecchia le caratteristiche e i comportamenti della società da cui
proviene).
Questi
eccessi di semplificazione però possono essere perdonati ad un’appassionata
opera di prima (quasi autobiografica) di un regista giovanissimo che si sforza,
nonostante la rabbia (quasi hanekiana), di comprendere le fragilità e conservare sguardi compassionevoli.
E ha
l’intelligenza di lasciare un finale aperto a mille spunti di riflessione.
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