giovedì 9 aprile 2015

Due notti, un giorno di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne (2014)



Sandra si è assentata dal lavoro per una crisi depressiva. Il suo capo si è accorto che, in qualche modo, la piccola azienda sopravvive anche senza di lei e pensa di licenziarla proponendo ai dipendenti, per il loro maggiore impegno, un bonus di mille euro. Quasi tutti i colleghi (mors tua, vita mea) accettano l’offerta, ma una sindacalista riesce ad ottenere che la votazione sia ripetuta.
Sandra ha due giorni, e una notte, per raccattare voti e salvarsi il posto convincendo i compagni di lavoro a cambiare idea e rinunciare alla gratifica.
Sa di muoversi sul filo del rasoio: è consapevole della sua inadeguatezza e conosce il valore che il bonus ha per i compagni di lavoro, ma nello stesso tempo sente profondamente di essere vittima di un’assurda ingiustizia e non accetta di essere estromessa nel momento della sua massima fragilità. E forse percepisce anche di essersi infilata in una guerra fra poveri che tiene fuori dal conflitto sia il “padrone” vigliacco che – sopra tutti – la crisi generata dalla globalizzazione.

I fratelli Dardenne puntano la cinepresa su Sandra (una disorientata splendida Marion Cotillard) e la seguono senza abbandonarla un attimo in questo suo penosissimo tour. Riprendono la sua fragilità psichica e la tenacia che riesce a recuperare; la rabbia (necessariamente repressa) ma anche la segreta comprensione indulgente che prova nei confronti dei colleghi; i disequilibri nell’alternarsi di momenti di fiducia e picchi di disperazione; l’intreccio aggrovigliato di paure e illusioni; il desiderio di abbandonarsi alla rassegnazione e la voglia di recuperare la grinta e inseguire il riscatto; i sensi di colpa e la difesa dei diritti; gli atteggiamenti umili (va da porta in porta come un mendicante) e il dignitoso orgoglio (che la porta a chiedere senza supplicare); le fragilità e la determinazione; le insicurezze e la tenacia più dura, quella che può affiorare solo dall’istinto di sopravvivenza.
Sempre attraverso i suoi occhi sono vivisezionate le differenti reazioni dei colleghi: la vergogna più acuta e la noncuranza più egoista, l’empatia e l’indifferenza, la solidarietà e la freddezza.

Le traballanti riprese con camera a spalla danno al film le atmosfere scarne di un documentario e sono efficaci nel rappresentare la precarietà psichica di Sandra e la vita fatta di piccoli avvenimenti.
La ripetitività delle situazioni (iter con perorazione iterata) rende schematico l’andamento narrativo e ne fa una specie di saggio comportamentale strutturato in una serie di test psico/sociologici a metà strada fra l’apologo politico e la Candid Camera (viene in mente il modulo di Specchio segreto di Nanni Loi, in cui l’autore creava un incidente critico per indagare le reazioni di  casuali cavie). Ma il calcolo non scontato dei voti crea sufficiente suspense; e l’autenticità delle risposte è sorprendente. (Forse il senso politico più profondo del film sta, più che nelle sorti di Sandra, nelle reazioni dei suoi colleghi che – grazie all’incidente – prendono coscienza e maturano “conversioni” radicali).
Marion Cotillard, sbiadita dalla depressione e imbottita di Xanax, riesce a comunicarci fisicamente (con postura, abiti, andatura e sguardi) che la radice della sua sofferenza non è il licenziamento, né la scarsa solidarietà dei colleghi, né la sua condizione di supplicante, ma la nera consapevolezza di non valere, di non meritarsi il lavoro, di non essere degna della stima o dell’affetto di nessuno.

Ed infatti alla fine di questa sua inutile via crucis (imprevedibile esito) perderà il lavoro ma nel fallimento della sua missione ritroverà quel che serve per ripartire: un briciolo di solidarietà (o forse semplicemente l’inizio della riumanizzazione dei rapporti, non solo di lavoro), un po’ di autostima (o forse solamente l’autoaccettazione), gli affetti semplici (quelli per i quali si tira avanti) e la voglia non tanto di combattere per affrontare la vita, ma almeno di pettinarsi il mattino per sostenere la giornata.

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