L’estenuante visione del film, accidenti, ha
confermato i pregiudizi che mi aveva suscitato il trailer in cui mi era
capitato di intravedere Elio Germano arrancare rasentando antichi muri, piegato
in due e insaccato nelle sue braghette lucide,…
Nella
prima parte (quella carceraria ma idilliaca) mi sono sorbito, con crescente
irritazione, una carrellata confusa infarcita dei più triti luoghi comuni della
biografia del poeta: il padre scorbutico, la madre arida d’affetti (O natura, o natura,…), il fratello ombra
e la sorella trepidante, la procace ma cagionevole dirimpettaia Silvia, all’opre intenta; e lo studio matto e
disperatissimo nella biblioteca, il greco tradotto all’impronta, il
tavolinuccio accostato alla finestra aperta nelle notti di luna e la
corrispondenza quasi amorosa con Giordani, cara e buona immagine paterna; e l’infelicità
variamente declinata, il sarcasmo iroso, il pessimismo cosmico e le derivazioni
metafisiche e non fisiche dell’infelicità, l’insofferenza per il natio borgo selvaggio e lo smarrimento
nella città, con la lucida consapevolezza di essere estraneo dovunque.
Non
ci è nemmeno stata risparmiata la gallina sulla via, quella che ripete il suo
verso nella quiete dopo la tempesta.
E quando
ho visto il povero gobbo infrattarsi nella boschetta intricata in cerca di un
invalicabile cespuglio che fungesse da siepe (quella che dall’ultimo orizzonte il guardo esclude), ed ho intuito che ci si
apprestava a declamare L’infinito, mi
ha sopraffatto l’insofferenza (parzialmente smorzata – ad essere sincero – dallo
struggente incanto del carme, ben detto da Elio Germano e ben fotografato da Martone
che per fortuna ha tenuto la macchina ferma sul primo piano dell’attore e ci ha
risparmiato la carrellata didascalica su gli interminati spazi).
La
seconda parte poi (quella della libertà) mi è parsa ancora più indisponente e confusa:
lì si assiste frastornati all’affastellarsi di viaggi e amori non corrisposti (per
la seducente fiorentina Fanny Ronchivecchi Targioni Tozzetti ma forse
anche per il troppo avvenente amico
Ranieri); ad attese in anticamere vaticane (con lo zio bigotto); a comparsate
imbarazzanti in salotti brulicanti di dame, curiose verso il malformato
genio e in Gabinetti affollati da
scrittori livorosi.
Nella
terza parte (quella disperata) si ha un’impennata teatrale e visionaria e non ci
viene risparmiato nulla: il degradante alloggiare in una fredda stamberga, come
la Mimì della Bohème; le soste in incongrue taverne napoletane per
sfogar la fame di vita divorando gelati; e poi ancora l’incontro allucinato con una
convitata di fango che si sfarina in sabbia; un’inverosimile eruzione vulcanica;
lo sfacelo del colera che imperversa; una terrificante discesa all’inferno –
presagio funebre – in un felliniano postribolo sotterraneo simile all’antro fumoso
della sibilla.
Il
film con le sue esasperanti contorsioni sembra non finire mai. Procede a balzi
e intoppi, accelera, singhiozza, rallenta, scarta, si attorciglia. E quando
arriva la conclusione, il botto finale è dato dall’indigeribile lettura della
potente ma contortissima Ginestra.
Elio
Germano sguazza nella sua parte come un dustinhoffman de noantri, pensando al
prossimo trofeo; riesce però a rendere con una certa efficacia l’acido sarcasmo
che divorava il povero Leopardi (da non confondere con il pessimismo citato in
tutti i bigini). Martone dimostra di
aver studiato molto ma gigioneggia di riflesso, pensando forse ai passaggi
televisivi o al bookshop della Casa Leopardi (che dall’1 ottobre, guarda caso, aumenta
le tariffe del 30%). Le musiche giocano di contropiede e scompigliano le carte accostando
elettronica e Rossini.
La
sala era piena di studenti, a sacrificare una sera per qualche credito in più.
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