Wes Anderson fissa l’obiettivo su una bislacca famiglia americana composta da cinque scombinati alla deriva e concentra l’attenzione sul momento cruciale della loro storia, che arriva quando il vecchio padre Royal (un grande Gene Hackman), spodestato per separazione antica, si ripresenta inaspettatamente a casa e pretende ospitalità. Alla reazione negativa della moglie e dei tre figli abbandonati, comunica di essere gravemente ammalato e di avere pochi mesi di vita, e fa capire di voler riparametrare la propria vita e riassettare i rapporti in famiglia prima di morire.
La
sua intrusione comunque non è gradita e la notizia della sua imminente fine desta
sconcerto ma non provoca gli effetti sperati.
Etheline
(Anjelica Huston), la moglie di Royal, cedendo senza troppa convinzione al
discreto corteggiamento del suo distinto commercialista di colore sta per
risposarsi dopo anni di solitudine rassegnata e non vede di buon grado l’indesiderata
riapparizione del vecchio inaffidabile dandy che la costringe a tornare al
punto di partenza, azzerando la sua faticosa metempsicosi e precludendole la
possibilità di riparare le smagliature affettive della vita.
I
tre figli, ex-prodigi in diversi campi, non perdonano al padre la colpa di
averli abbandonati e di non aver voluto accompagnarli fuori dalla loro faticosa
adolescenza; ma soprattutto non riescono a tollerare che il padre non abbia nemmeno
provato a credere in loro; e forse ascrivono alla sua fuga le ragioni della
loro involuzione e dei loro fallimenti.
Richie
(Luke Houston) già campione di tennis, ha subìto un blocco psicosomatico e non
ha più voluto impugnare una racchetta (ma se ne va in giro con la fascia per
capelli, occhiali da sole e abbigliamento sportivo; e cerca il sapore della sua
infanzia nella tenda da campeggio montata in camera; e fugge dal groviglio
familiare imbarcandosi per mesi su navi da crociera).
Chas
(Ben Stiller) ex-genio della finanza, zoologo inventore di topi a pois, rimasto
vedovo, è diventato patofobico e ossessionato dai pericoli e si muove con i due
figli al seguito indossando (sia lui che i figli-clone) una tuta rossa.
Margot
(Gwyneth Paltrow), ex-drammaturga prodigio, è perennemente depressa, fuma di
nascosto (a trent’anni suonati), dissimula la sua insicurezza sotto un trucco un
po’ adolescenziale e gira avvolta inseparabilmente in una pelliccia; segretamente
innamorata del fratellastro Richie, ha un marito premuroso e rassegnato (Bill
Murray) e un amante di nome Eli (Owen Wilson, coautore della sceneggiatura),
scrittore tossicodipendente, vicino di casa, amico di infanzia e compagno di
giochi (suo e dei fratelli) da sempre desideroso di diventare un Tenenbaum.
La casa è surrealmente pop e bizzarramente inalterata, con disegni
infantili alle pareti, arredi anni ’70, stanza dei giochi, vinili, lampadari
pop. Anche le musiche (Beatles, Nico
senza i Velvet Underground, Paul Simon senza Garfunkel, Bob Dylan, …) evidenziano con
didascalica precisione la collocazione temporale della vicenda, forse a significare la nostalgia incancellabile
per l’age d’or o a rimarcare l’amarezza
per le vite interrotte o a preservare le condizioni esteriori giuste in attesa
della palingenesi interiore.
I
costumi, le mise e gli accessori sono tipicizzanti, provocatoriamente
connotativi e caratterizzano i personaggi come si usa nei fumetti (i gessati di
Royal, la tuta rossa di Chas, la pelliccia di Margot, la fascia di Richie).
La
sceneggiatura è zoppicante, come le vite che intende rappresentare; la trama appare
(metaforicamente?) sfilacciata; mentre le leggendarie inquadrature simmetriche
(ossessione di Anderson) rivelano qui la nostalgia e il bisogno di equilibri
introvabili.
Le cinque
vite alla deriva restano incerte e sospese, ferme, in attesa, deluse, confusamente
rassegnate al fatto che nulla possa ormai accadere, consapevoli che la storia
non torni indietro.
Il
bizzarro padre, riapparso per rimediare alla colpa originaria, insiste nella
sua missione; l’epitaffio
che ha narcisisticamente preparato per sé parla di salvezza dal naufragio, ma
l’approdo da lui immaginato resta in realtà una speranza, un auspicio.
Forse
Anderson vuol dirci che la salvezza dal naufragio sta nell’accettarsi per come si
è, con piena consapevolezza; che per sopravvivere basta schivare l’infelicità
che deriva dal voler essere o apparire diversi; che è inutile incaponirsi per
modificare, reprimere, controllare, resistere, rinegoziare, difendersi; e che
non serve assolutamente a nulla aspettare, desiderare, affannarsi per afferrare
il tempo o preoccuparsi di rileggere il passato per riscrivere il futuro.
Una
cosa è certa: la vita non ha senso; la vita è un nonsenso.
La
natura non può essere sovvertita e la vita consumata non può essere riparata o ricostruita
o reinventata.
Non
basta ricreare le atmosfere del passato per ritrovare il tempo perduto. Non
serve ricucire smagliature affettive per rimettere in carreggiata esistenze
deragliate. Le illusioni stinte non recuperano colore o vita dalle cose inanimate,
dalle pareti pastello, dagli oggetti-feticcio transazionali, dal remake di occasioni
ingoiate dal tempo.
Non
resterà traccia degli affanni dei Tanenbaum, personaggi dimenticabili, ridicoli
nel loro impotente arrancare per uscire fuor
del pelago a la riva.
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