giovedì 9 aprile 2015

I Tenenbaum di Wes Anderson (2001)



Wes Anderson fissa l’obiettivo su una bislacca famiglia americana composta da cinque scombinati alla deriva e concentra l’attenzione sul momento cruciale della loro storia, che arriva quando il vecchio padre Royal (un grande Gene Hackman), spodestato per separazione antica, si ripresenta inaspettatamente a casa e pretende ospitalità. Alla reazione negativa della moglie e dei tre figli abbandonati, comunica di essere gravemente ammalato e di avere pochi mesi di vita, e fa capire di voler riparametrare la propria vita e riassettare i rapporti in famiglia prima di morire.
La sua intrusione comunque non è gradita e la notizia della sua imminente fine desta sconcerto ma non provoca gli effetti sperati.
Etheline (Anjelica Huston), la moglie di Royal, cedendo senza troppa convinzione al discreto corteggiamento del suo distinto commercialista di colore sta per risposarsi dopo anni di solitudine rassegnata e non vede di buon grado l’indesiderata riapparizione del vecchio inaffidabile dandy che la costringe a tornare al punto di partenza, azzerando la sua faticosa metempsicosi e precludendole la possibilità di riparare le smagliature affettive della vita.
I tre figli, ex-prodigi in diversi campi, non perdonano al padre la colpa di averli abbandonati e di non aver voluto accompagnarli fuori dalla loro faticosa adolescenza; ma soprattutto non riescono a tollerare che il padre non abbia nemmeno provato a credere in loro; e forse ascrivono alla sua fuga le ragioni della loro involuzione e dei loro fallimenti.
Richie (Luke Houston) già campione di tennis, ha subìto un blocco psicosomatico e non ha più voluto impugnare una racchetta (ma se ne va in giro con la fascia per capelli, occhiali da sole e abbigliamento sportivo; e cerca il sapore della sua infanzia nella tenda da campeggio montata in camera; e fugge dal groviglio familiare imbarcandosi per mesi su navi da crociera). 
Chas (Ben Stiller) ex-genio della finanza, zoologo inventore di topi a pois, rimasto vedovo, è diventato patofobico e ossessionato dai pericoli e si muove con i due figli al seguito indossando (sia lui che i figli-clone) una tuta rossa.
Margot (Gwyneth Paltrow), ex-drammaturga prodigio, è perennemente depressa, fuma di nascosto (a trent’anni suonati), dissimula la sua insicurezza sotto un trucco un po’ adolescenziale e gira avvolta inseparabilmente in una pelliccia; segretamente innamorata del fratellastro Richie, ha un marito premuroso e rassegnato (Bill Murray) e un amante di nome Eli (Owen Wilson, coautore della sceneggiatura), scrittore tossicodipendente, vicino di casa, amico di infanzia e compagno di giochi (suo e dei fratelli) da sempre desideroso di diventare un Tenenbaum.

La casa è surrealmente pop e bizzarramente inalterata, con disegni infantili alle pareti, arredi anni ’70, stanza dei giochi, vinili, lampadari pop.  Anche le musiche (Beatles, Nico senza i Velvet Underground, Paul Simon senza Garfunkel, Bob Dylan, …) evidenziano con didascalica precisione la collocazione temporale della vicenda,  forse a significare la nostalgia incancellabile per l’age d’or o a rimarcare l’amarezza per le vite interrotte o a preservare le condizioni esteriori giuste in attesa della palingenesi interiore.
I costumi, le mise e gli accessori sono tipicizzanti, provocatoriamente connotativi e caratterizzano i personaggi come si usa nei fumetti (i gessati di Royal, la tuta rossa di Chas, la pelliccia di Margot, la fascia di Richie).
La sceneggiatura è zoppicante, come le vite che intende rappresentare; la trama appare (metaforicamente?) sfilacciata; mentre le leggendarie inquadrature simmetriche (ossessione di Anderson) rivelano qui la nostalgia e il bisogno di equilibri introvabili.

Le cinque vite alla deriva restano incerte e sospese, ferme, in attesa, deluse, confusamente rassegnate al fatto che nulla possa ormai accadere, consapevoli che la storia non torni indietro.
Il bizzarro padre, riapparso per rimediare alla colpa originaria, insiste nella sua missione; l’epitaffio che ha narcisisticamente preparato per sé parla di salvezza dal naufragio, ma l’approdo da lui immaginato resta in realtà una speranza, un auspicio.
Forse Anderson vuol dirci che la salvezza dal naufragio sta nell’accettarsi per come si è, con piena consapevolezza; che per sopravvivere basta schivare l’infelicità che deriva dal voler essere o apparire diversi; che è inutile incaponirsi per modificare, reprimere, controllare, resistere, rinegoziare, difendersi; e che non serve assolutamente a nulla aspettare, desiderare, affannarsi per afferrare il tempo o preoccuparsi di rileggere il passato per riscrivere il futuro.  
Una cosa è certa: la vita non ha senso; la vita è un nonsenso.
La natura non può essere sovvertita e la vita consumata non può essere riparata o ricostruita o reinventata.
Non basta ricreare le atmosfere del passato per ritrovare il tempo perduto. Non serve ricucire smagliature affettive per rimettere in carreggiata esistenze deragliate. Le illusioni stinte non recuperano colore o vita dalle cose inanimate, dalle pareti pastello, dagli oggetti-feticcio transazionali, dal remake di occasioni ingoiate dal tempo.
Non resterà traccia degli affanni dei Tanenbaum, personaggi dimenticabili, ridicoli nel loro impotente arrancare per uscire fuor del pelago a la riva.









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