Il film è scalcagnato, incerto fra il
surrealismo del protagonista ed il campo d’azione che deve invece apparire
“ordinario” e vicino alla realtà. E, come quasi tutti i film costruiti attorno
a delle macchiette, mostra il fiato corto e cade nella ripetitività che a lungo
andare esaspera.
Certamente contiene delle genialate fulminanti,
ma il brodo è lungo e poco amalgamato. Ricorda - in questo - alcuni film di
Totò e alcuni di Sordi. Alcune sequenze potranno costituirsi come documenti
significativi per fotografare l’Italia del Duemila.
E poi, e poi, … non è un film comico. Chi si
tiene minimamente informato sulle vicende politiche del nostro paese, non ci
trova molto da ridere. Albanese carica i suoi personaggi fino
all’esasperazione, ma viene immancabilmente dribblato dalla cronaca. È
difficile parodiare una parodia. La tragicommedia sta nella realtà, non nella
pallida finzione che le rappresenta. Il sorriso che affiora in presenza di un
qualunquismo così dichiaratamente smaccato e strafottente si raggela sul viso e
diventa una maschera attonita. Solo Pirandello forse ha saputo infilzare in
questo modo il coltello della satira amara nelle carni di una società che non
finisce mai di stupire per la sua inaudita capacità di sopportare tanta
violenza.
La bestia immonda non è Cetto Laqualunque, ma
chi lo supporta e lo sopporta.
Ad essere surreali non sono i suoi programmi
elettorali ma il pubblico autolesionista che li applaude con tragico entusiasmo.
Il cinismo inquietante del personaggio -
consapevole e impudente - è direttamente proporzionale alla beota e tragica allegria
dei suoi sostenitori - irresponsabili e ossequienti - e alla tragica impotenza
di tutti gli altri che, a lungo andare, si dovranno rassegnare al quia,
annichiliti dall’assuefazione, incapaci di indignarsi.
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