martedì 6 novembre 2012

È stato il figlio (2012) di Daniele Ciprì


Una farsa grottesca con beffardo finale da tragedia.

Uno scombinato film che sembrerebbe un bislacco bimovie (girato, e non solo ambientato, negli anni ’70) se non fosse per la disperazione che gronda da ogni scena, per l’angoscia che pervade l’atmosfera e filtra da ogni sguardo, per la costernazione mal camuffata da comica sarabanda, per la galleria di personaggi troppo stravaganti e improbabili per non essere veri.
Una storia cinica (come quelle dell’indimenticabile Cinico TV dell’accoppiata Ciprì-Maresco), che però - a mio parere - contiene e trasuda l’infinita pietà per la miseria senza nobiltà dei miserabili.  
Ciprì, come sempre, ci dà dentro, ed esagera. Esagera coi colori carichi e caldi, con le inquadrature sghembe, coi movimenti di macchina concitati, col montaggio parossistico, con la eterogeneità di stili giustapposti, con la miscellanea pastrocchiata della colonna sonora. Ma lo fa con piena consapevolezza: sa che solo col paradosso si possono abbozzare i contorni dell’inaccettabile degrado; che sono necessarie delle lenti deformanti per mostrare i risvolti più desolanti della indigeribile realtà. Perciò calca i toni nel raccontare l’orrore percettibile che consuma un’umanità allo sbando; abbozza caricature per delineare personaggi abbrutiti dalla miseria; aggredisce con tutta l’acidità di cui i capace i poveri di spirito del sottoproletariato meridionale. Il ghigno però non riesce a nascondere l’infinita amara compassione che prova nei confronti di questi relitti e lascia affiorare la in ogni inquadratura la pena rabbiosa per la loro impossibile redenzione.
È lui - il regista impotente (inerme spettatore,  proprio come ognuno di noi) - quell’attonita figura vestita di nero che assiste, invisibile a tutti, all’andirivieni caotico di vittime e carnefici nello slargo cotto da un sole che asciuga i grumi di sangue della bambina assassinata e presto dimenticata.


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