Una farsa grottesca con beffardo finale da tragedia.
Uno scombinato film che sembrerebbe un bislacco bimovie (girato, e non
solo ambientato, negli anni ’70) se non fosse per la disperazione che gronda da
ogni scena, per l’angoscia che pervade l’atmosfera e filtra da ogni sguardo, per
la costernazione mal camuffata da comica sarabanda, per la galleria di personaggi
troppo stravaganti e improbabili per non essere veri.
Una storia cinica (come quelle dell’indimenticabile Cinico TV
dell’accoppiata Ciprì-Maresco), che però - a mio parere - contiene e trasuda l’infinita
pietà per la miseria senza nobiltà dei miserabili.
Ciprì, come sempre, ci dà dentro, ed esagera. Esagera coi colori carichi
e caldi, con le inquadrature sghembe, coi movimenti di macchina concitati, col
montaggio parossistico, con la eterogeneità di stili giustapposti, con la
miscellanea pastrocchiata della colonna sonora. Ma lo fa con piena
consapevolezza: sa che solo col paradosso si possono abbozzare i contorni
dell’inaccettabile degrado; che sono necessarie delle lenti deformanti per
mostrare i risvolti più desolanti della indigeribile realtà. Perciò calca i
toni nel raccontare l’orrore percettibile che consuma un’umanità allo sbando; abbozza
caricature per delineare personaggi abbrutiti dalla miseria; aggredisce con
tutta l’acidità di cui i capace i poveri di spirito del sottoproletariato meridionale.
Il ghigno però non riesce a nascondere l’infinita amara compassione che prova
nei confronti di questi relitti e lascia affiorare la in ogni inquadratura la pena
rabbiosa per la loro impossibile redenzione.
È lui - il regista impotente (inerme spettatore, proprio come ognuno di noi) - quell’attonita
figura vestita di nero che assiste, invisibile a tutti, all’andirivieni caotico
di vittime e carnefici nello slargo cotto da un sole che asciuga i grumi di
sangue della bambina assassinata e presto dimenticata.
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