Due storie che si intersecano.
La prima – vera – è quella di due ragazzi della Guinea,
Yaguine e
Fodé, che scrivono una lettera
"Alle loro Eccellenze i membri e responsabili dell'Europa" per
raccontare le misere condizioni in cui sono costretti e per chiedere aiuto; e poi, decisi a consegnare personalmente l’appello, si
imbarcano clandestinamente su un aereo per Bruxelles nascondendosi nel vano
carrelli e morendovi assiderati.
La seconda storia – di finzione – è quella di Thabo, un
altro ragazzo guineano che, “importato” in Italia come promessa del calcio
(anzi, del mercato del calcio), non si rivela il campione che sembrava e viene
letteralmente “scaricato” dal suo mister in un’area di servizio presso Bari; e per
orgoglio e nostalgia decide di tornarsene al suo villaggio, accompagnato da Rocco,
un amico barese orfano di madre, col padre carcerato, in fuga da uno zio che lo
sfrutta e lo maltratta.
I due compiono un inverosimile viaggio verso la Guinea,
prima imbarcandosi da clandestini su una nave e poi attraversando a piedi il grande
deserto lungo il “sentiero delle scarpe”, percorrendo a ritroso il viaggio dei
disperati che fuggono dalla miseria e dalla fame verso l’Europa inospitale.
Lo spazio dedicato alle due storie è asimmetrico:
quella vera e tragica appare secondaria, breve e sproporzionata, posticcia,
discontinua e saltuaria, male incastrata e senza nessi con l’altra (se si
eccettua il forzato aggancio “a sorpresa” costituito dalla Finocchiaro che
nella prima storia è l’operaia nello scalo di Bruxelles che scopre i cadaveri
dei due ragazzi e nella seconda diventa la volonterosa operatrice sociale in
Africa). E troppo lontano appare la cupa
e cruda atrocità della storia vera rispetto all’ottimismo e alla leggerezza di
quella inventata.
Le due vicende si intrecciano con troppa superficialità
e alternano senza soluzione di continuità (sia narrativa che stilistica) brevi
passaggi estremamente verosimili con lunghi momenti favolistici e inverosimili
(come l’attraversata del deserto – si parla del Sahara! – compiuta da due
ragazzini soli che scalciano allegramente un pallone fra le dune, dribblando
tombe e relitti; come le inspiegabili coincidenze che fanno sì che tutti i
personaggi incontrati dai due ragazzi lungo l’improbabile viaggio di qualche
migliaio di chilometri siano – dico tutti – simpaticamente italiani).
Non basta buttarla sulla metafora per giustificare il
minestrone: le figure retoriche, in letteratura come nel cinema, hanno senso
quando assumono risalto distaccandosi, ben distinte, dallo sviluppo narrativo e
collocandosi nei momenti chiave della trama senza condizionarla.
Il sole dentro è film girato e prodotto da un regista che conosce il
mestiere ma non l’arte; che dimostra di non aver imparato granché dai registi
con cui ha collaborato (Zampa, Monicelli, Comencini, De Sica, Bolognini, Leone,
…); e che non brilla certo di luce propria. Niente a che fare con i cineasti
dei paesi emergenti che sembra abbiano fatto propria con maggior efficacia la
lezione dei neorealisti (pensiamo, per esempio, al cinema mediorientale, iracheno
o iraniano, a quello palestinese o israeliano, e a quello turco, a quello
sudamericano, a quello dell’estremo oriente,…).
Il filmetto va bene come spot per l’Unicef, o come
pretesto per un bel cineforum nella scuola dell’obbligo. Certo: l’argomento e i
problemi che tocca costringono gli spettatori ad essere bendisposti (non si
spara sulla Croce Rossa); ma il tema importante non basta a rendere importante
il film. E le incoerenze e le furberie, a lungo andare, diventano stucchevoli
se non sono sorrette da una convinta ispirazione e da una convincente appassionata
energia creativa.
Imperdonabile l’ingenuo montaggio alternato (da
scuoletta di cinema) dei due amici che si incontrano; ingiustificabile l’abbigliamento
touareg di Salvi o l’inserimento forzato di Giobbe Covatta; insostenibile il sonno
dei due ragazzi nel deserto, mano bianca nella mano nera, che ricorda
l’edulcorato spot dei biscotti Ringo. Per non parlare del “decisivo” (e
razzista) inserimento di Rocco, il campione bianco con la faccia impiastricciata
di nerofumo, nella partita di calcio che, giocata al ritmo dei tamburi, chiude
il film.
Non è giusto infierire, ma c’è da chiedersi come mai i
ragazzi di N’Dula fuggono da quello che sembra il paradiso terrestre, dove i
rapporti sono idilliaci, dove non manca mai chi prepara pasta e fagioli e dove
trovano senso le vite di Angela Finocchiaro e di Gaetano Fresa, e perfino quelle di uno
scombinato come Francesco Salvi e di un fuori di testa come Diego Bianchi (che,
pur interpretando il ruolo di Console Onorario non rinuncia ai tratti
caricaturali di Zoro, il suo
personaggio da cabaret).
Una battuta si salva:
quella di Thabo che, rispondendo a Rocco che dice di avere una sorellastra di
cui non ricorda il nome, sussurra che lui di fratelli ne ha tanti e di tutti
ricorda il nome; ma a ben vedere, anche questa può apparire come una trovata moralistica,
accattivante e furba del Bianchini sceneggiatore.
Leggo l’elenco dei
produttori: Alveare Cinema (dello stesso Bianchini,
autore del soggetto e del trattamento oltre che regista), Rai Cinema e Apulia
Film Commission, con il patrocinio dell’Unicef, della Figc (la potente
federazione calcistica, non i giovani comunisti) e della autorevole Comunità di
Sant’Egidio. È proprio il caso di dire, citando Orazio (Ars poetica, verso 139): “Parturient montes, nascetur ridiculus mus”
che significa "Le
montagne partoriranno, nascerà un ridicolo topo".
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