martedì 31 gennaio 2012

This must be the place (1911) di Paolo Sorrentino

Considerata l’omogeneità e la coerenza della cifra stilistica complessiva, è necessario premettere che la irritante lentezza del film non è casuale, così come non è incidentale l’esasperante inerzia dei movimenti da bradipo del protagonista, il suo eloquio pigro, il suo sguardo sempre patologicamente fisso, la sua indolenza caratteriale, la sua rilassata apatia. 
Cheyenne, ex-rockstar in disarmo, nonostante il benessere garantito dai diritti d’autore, vive stancamente la sua decadenza nella campagna irlandese. Senza troppe illusioni crede di frenare il declino nascondendosi dietro la maschera quasi grottesca che ha connotato, negli anni Settanta, la sua immagine pubblica di divo del rock (sottogenere dark) ed ha accompagnato la sua carriera segnandone il successo.
L’incapacità di essere autentico e la paura di scoprirsi (sia nel senso di riconoscersi che in quello di rivelarsi)  lo portano a curare ogni mattina il suo laboriosissimo trucco, a coprirsi di ciprie e ceroni, a farsi le labbra vermiglie e gli occhi bistrati, ad acconciarsi la testa come un cespuglio, a presentarsi mascherato a se stesso, nello specchio, prima di tutto, e poi alla sua indulgente e assennata compagna e al mondo;  e di non rinunciare al suo travestimento nemmeno per sedersi a colazione, per recarsi al supermercato e per giocare alla pelota nel fondo della piscina asciutta della sua sontuosa villa.
Il processo di imbalsamazione non interessa solo l’immagine: anche la testa, il cuore, la memoria, le emozioni, gli affetti, le relazioni, hanno subito un trattamento analogo. La vita si snoda in una quotidianità tranquillizzante fatta di piccole consuetudini fisse, di riti reiterati, di gesti ripetuti, di relazioni consolidate; e ovviamente di depressioni ed isterie contenute, di mediocrità più o meno consapevoli, di sconforto e rassegnazione.
Il futuro non va oltre la misura del giorno; il presente ha la rassicurante consistenza del piccolo trolley che in nostro eroe triste si trascina dietro ovunque; il passato non esiste.
La vacuità si rivela improvvisamente quando Cheyenne viene richiamato a NewYork per la morte del suo vecchio padre, fino ad allora ignorato, trascurato, odiato, dimenticato.
Si ritrova davanti al cadavere di un estraneo. Rivede il tatuaggio dei sopravvissuti all’Olocausto. Si ritrova a scorrere gli appunti meticolosamente raccolti dal vecchio nella lunga e laboriosa ricerca del suo aguzzino; e resosi conto che la pignola indagine stava per raggiungere i risultati, decide di portare a termine l’investigazione e di cercare l’ufficiale nazista per vendicare le umiliazioni patite dal padre.
E parte .
Il disordinato on-the-road ricorda vagamente la trilogia della strada di Wenders e qualcosa di Antonioni.
Il suo viaggio sulle tracce del criminale diventa anche un viaggio metaforico attraverso la desolazione di una società in declino, un cammino di recupero della realtà (la sua e quella del mondo che lo circonda), un percorso verso l’autoconsapevolezza e la metamorfosi (anche se, in un passaggio, Sorrentino gli fa dire “Non sto cercando me stesso. Sono in New Mexico non in India”!).
Paesaggi desolati , strade che tagliano il deserto, campagne piatte, chiese vuote, armerie allucinanti, case isolate che si ergono nel nulla, bar che sembrano il set dei lividi quadri di Hopper.
Lungo il tragitto incontra un’umanità sofferente e smarrita: la vedova di guerra alla deriva col suo figliolo obeso e disadattato, il tatuatore triste e disorientato, il petulante inventore della valigia a rotelle, il nativo taciturno che torna alle sue montagne, … 
Ed alla fine del viaggio trova un decrepito e patetico nazista  che coltiva ricordi autoconsolatori e sa offrire giustificazioni ragionevolmente accettabili ai propri crimini.
Ma Cheyenne non si lascia abbindolare: conosce bene, per averli sperimentati su di sé, i meccanismi della inerzia autoassolutoria: non infierisce, ma nemmeno perdona.
Prima di tutto fa denudare il vecchio e lo fa camminare nella neve, mettendolo nella condizione di assaggiare la crudeltà di chi è più forte e di sperimentare l’umiliazione, la paura, il gelo.
Poi denuda se stesso: si toglie la maschera dietro a cui si è nascosto per tutta la vita e comincia ad affrontare la realtà che ha sempre eluso e ad affrontare, senza trolley, la sua vita irrisolta.
Sean Penn sarà ricordato per questo ruolo: è assolutamente sorprendente la sua abilità a districarsi in questa difficilissima prova in cui deve dosare la misura del grottesco con ironia e disincanto per interpretare un personaggio al limite della caricatura. 
 

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