Eric Bishop è un cinquantenne in crisi: è un postino insoddisfatto del suo lavoro (e accumula in casa posta non consegnata); è sposato e infelicemente separato; i figli non lo considerano; vive sull’orlo della depressione; annega i residui rimpianti nell’alcool; le sue relazioni sociali si limitano alla frequentazione del bar e a bevute con gli amici-colleghi, tutti tifosi del Manchester; è un fallito rassegnato, insomma, un relitto alla deriva, un solitario che - fumando uno spinello fregato a suo figlio - si confida col poster di Eric Cantona, il suo idolo calcistico.
La vita già insopportabile gli si complica ulteriormente quando il figlio si compromette con un teppista e si caccia in una situazione davvero rischiosa: il fantasma del calciatore che si materializzagli farà trovare, con le sue esortazioni retoriche ed i suoi proverbi, il coraggio che non ha mai avuto; la fantasia e la solidarietà degli amici tifosi gli risolveranno il problema.
Il finale da “arrivano i nostri”, per quanto fracassone, lascia insoluti altri nodi: la gratitudine dei figli appare eccessiva e non potrà che essere episodica, considerato il rapporto perduto, il rispetto sgretolato e l’amorfo distacco instauratosi; la relazione con la moglie difficilmente sarà rappezzata e non basterà rispolverare le scarpe blu per ritrovare la magia dell’innamoramento; l’autostima atrofizzata negli anni non si rigenererà automaticamente rialzando il colletto della maglietta; un piccolo successo non sarà sufficiente a colmare il vuoto di troppe disfatte.
La realtà è amara e insopportabile. Loach la descrive col solito taglio efficace, con la solita sensibilità. Ma decide per una volta di affrontarla con la leggerezza insolita della commedia: invece che invocare la coscienza civica (svaporata), sollecitare la politica (inefficace), predicare la lotta di classe (paleontologica), svicola alla ricerca di soluzioni fantasiose (le sole possibili?).
Il più politico dei registi vuole forse suggerirci che la palingenesi partirà dalla solidarietà apolitica degli uomini qualunque, dalla lotta dei perdenti, dal coraggio di chi ha paura?
La vita già insopportabile gli si complica ulteriormente quando il figlio si compromette con un teppista e si caccia in una situazione davvero rischiosa: il fantasma del calciatore che si materializzagli farà trovare, con le sue esortazioni retoriche ed i suoi proverbi, il coraggio che non ha mai avuto; la fantasia e la solidarietà degli amici tifosi gli risolveranno il problema.
Il finale da “arrivano i nostri”, per quanto fracassone, lascia insoluti altri nodi: la gratitudine dei figli appare eccessiva e non potrà che essere episodica, considerato il rapporto perduto, il rispetto sgretolato e l’amorfo distacco instauratosi; la relazione con la moglie difficilmente sarà rappezzata e non basterà rispolverare le scarpe blu per ritrovare la magia dell’innamoramento; l’autostima atrofizzata negli anni non si rigenererà automaticamente rialzando il colletto della maglietta; un piccolo successo non sarà sufficiente a colmare il vuoto di troppe disfatte.
La realtà è amara e insopportabile. Loach la descrive col solito taglio efficace, con la solita sensibilità. Ma decide per una volta di affrontarla con la leggerezza insolita della commedia: invece che invocare la coscienza civica (svaporata), sollecitare la politica (inefficace), predicare la lotta di classe (paleontologica), svicola alla ricerca di soluzioni fantasiose (le sole possibili?).
Il più politico dei registi vuole forse suggerirci che la palingenesi partirà dalla solidarietà apolitica degli uomini qualunque, dalla lotta dei perdenti, dal coraggio di chi ha paura?
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