Immaginate, di un teatro, il retropalco claustrofobico, costituito da un’infinità di quinte e fondali, porte vere e finestre finte, graticci di legno e pedane; e poi dietro ancora un labirinto intricato di passaggi male illuminati e scale che portano a ripostigli, anfratti e soffitte, soppalchi e ballatoi; e corridoi con file di usci che accedono a camerini (arredati ovviamente con tavolini per il trucco occupati da scatole di cipria, spazzole e parrucche e sormontati da specchi make up incorniciati da lampadine); e spogliatoi ingombri di costumi, camminamenti ostruiti da mobili, torri sceniche stracariche di fondali, ponteggi sospesi, argani, funi, cavi, cianfrusaglie sparse.
In questi spazi escheriani che paiono il magazzino di un raccoglitore compulsivo si sviluppa la storia raccontata da Inarritu.
Il protagonista è Riggan Thomson (Michael Keaton), attore di cinema che porta sulle spalle il peso della fastidiosa popolarità raggiunta interpretando Birdman, l’uomo-uccello, supereroe dai superpoteri (in realtà Keaton ha davvero interpretato, nel 1989, la parte di Batman nel film di Tim Burton). L’ex-divo è a fine carriera, ma vuole mettersi in gioco per scrollarsi di dosso lo scomodo costume che lo ha reso famoso ma non ha valorizzato le sue qualità attoriali: per questo investe soldi ed energie per portare in teatro – come sceneggiatore, regista e interprete – l’adattamento di un testo di Raymond Carver (What we talk about when we talk about love).
Ma liberarsi di Birdman non è cosa semplice per Riggan: il personaggio e l’interprete sopravvivono fusi e confusi, si confidano e bisticciano ingarbugliati. L’uomo-uccello, più che un avatar, è l’alter ego di Riggan. E le contorsioni della mente sono più intricate dei labirinti del teatro.
A complicare le cose entrano in gioco anche l'ex moglie, una figlia ex-tossica e un’amante incerta (che testimoniano anche i suoi fallimenti esistenziali di pessimo marito, padre inaffidabile e amante egocentrico); e si aggiungono i problemi legati alla produzione, all’allestimento dello spettacolo, alla scelta del cast, con attrici inquiete e isteriche, frustrate e cariche di ossessioni; e con un protagonista maschile arrogante e schizzato, scialbo nella vita e istrionico (vivo) sul palco (interpretato da Edward Norton che, guarda caso, nella sua carriera ha indossato gli stracci di Hulk).
Su questi sfondi e su questi personaggi, Inarritu accende la cinepresa e non la stacca per 120 concitatissimi minuti scanditi dal continuo martellare sincopato della batteria.
Il film insiste tutto, mi pare, sul tema dell’uomo e il suo doppio.
Riggan ci affascina (nel senso ambivalente del termine) perché, come noi, vive di ambiguità, macerato dalle contraddizioni: insegue il successo ma fugge dal personaggio che gli ha dato fama; cerca l’autenticità ma non riesce a districarsi dall’ambizione; sogna di volare ma si muove convulso nei labirinti sotterranei del teatro (e in quelli dei suoi disorientamenti mentali e affettivi); immagina gli spazi ariosi e desidera librarsi nell’aria ma soffre di acrofobia, è frenato dal groviglio delle sue incoerenze e inchiodato a terra dal peso del vuoto che si porta dentro.
Alla fine - paradosso fra i paradossi – ritroverà il successo grazie al maldestro tentativo di rinunciare ad inseguirlo chiudendo la partita.
Il film termina su un surreale e incomprensibile salto nel vuoto (c’è da chiedersi what we talk about when we talk about flight).
Peccato!
Che perfetto finale sarebbe stato quello della scena paradigmatica in cui Riggan (che nell’affannosa ricerca di autoaffermazione sta tentando di fuggire dal cinema per rifugiarsi nel teatro) si ritrova chiuso fuori dal St. James Theatre e percorrere Times Square in mutande, coi passanti che in quel vecchietto spennacchiato riconoscono il grande Birdman e lo inseguono per l’autografo e lo fotografano coi loro smartphone per “immortalarlo” e ingabbiarlo inesorabilmente nella rete squallida dei social network.
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