Tutti i film di Moretti sono autobiografici, anzi ombelicali.
E tutti sono costruiti per raccontare i diversi passaggi esistenziali, le differenti fasi di crescita (si fa per dire) dell’autore: dalle confusioni adolescenziali di Io sono un autarchico del 1976, ai vitellonismi postsessantotteschi di Ecce bombo del 1978, fino all’età della creatività frustrata di Sogni d’oro del 1981, al periodo delle deviazioni nevrotico-maniacali di Bianca del 1984, alle crisi d’impotenza depressiva di La messa è finita del 1985, agli stalli ideologici di Palombella rossa del 1989 e de La cosadel 1990, per arrivare infine ai ripensamenti intimistici di Caro diario del 1993 e di Aprile del 1998 e allo sgomento per gli smottamenti etico-politici ne Il caimano del 2006.
Un percorso in discesa umorale, a ben riflettere, dal giovanilismo un po’ insolente all’avvilimento crepuscolare.
I primi segni di smottamento (o, meglio, di smussamento) il regista romano (incolpevolmente romano) li aveva manifestati in alcune sue ultime opere (La stanza del figlio del 2001 e Habemus papam del 2011) nelle quali aveva attenuato la sua insopprimibile supponenza (che lui sapeva travestire abilmente di noia esistenziale) e aveva dimostrato di saper riflettere con più onestà su alcune sue risapute insicurezze (le stesse che nei film precedenti aveva di volta in volta camuffato sotto maschere stravaganti o rappresentato con ironia autoassolutoria o sbandierato con la sicumera del fanfarone egocentrico).
L’età che avanza fa anche di questi strani scherzi; e qualche volta perfino a un presuntuoso può capitare di perdere i tratti sgradevoli dell’arroganza (caratteriale o intellettuale, di sostanza o di facciata) e trovarsi a fare i conti con la propria fragilità, magari per interposto personaggio.
Questo succede oggi a Nanni Moretti, il principe degli arroganti e dei narcisisti.
L’ossessione autoreferenziale, sempre assai evidente, non si è del tutto smorzata, ma col passare degli anni si comincia ad esprimere in forme differenti e si colora di tinte diverse, ovviamente sempre meno sgargianti; e gli arcobaleni dell’altezzosità giovanile, ingoiati dalla nuvolaglia e dal crepuscolo, si stemperano gradualmente fino ad assumere il grigiore cupo di Mia madre.
Inquesto ultimo film Moretti è sempre in vetrina, ovviamente, ma si analizza scomponendosi in due ruoli: come attore presta la faccia ad un personaggio un po’ defilato (quello di un ingegnere che, a scanso di equivoci, si chiama Giovanni); riversa invece la sua ingombrante nevrosi dentro ad un personaggio femminile, Margherita (Margherita Buy), sorella dell’ingegnere, che di mestiere – per chi fosse tardo a collegare – fa la regista cinematografica.
[Mi chiedo se questo sdoppiamento sia la messa in pratica di quella strana raccomandazione registica che Margherita ripete ossessivamente ai suoi allibiti attori invitandoli a "interpretare un personaggio ma pure stargli accanto"].
I due devono affrontare le ultime fasi della malattia della madre, una dolce vecchia signora, già insegnante emerita di latino e greco (di quelle che sanno il dativo di possesso, per intenderci). Mentre Giovanni accetta la realtà, razionale e meticoloso, e lascia il lavoro per accudire la madre preparandole perfino i pasti da portare in ospedale, Margherita non vuol capire o non accetta, rifiuta la realtà (“due passi, accidenti, sono due passi”), sbrocca, mette in crisi le sue relazioni affettive (coll’ex-marito, con il compagno, con la figlia adolescente, coi colleghi e coi collaboratore) e si concentra sul lavoro dedicandosi con accanimento sterile a dirigere un film di impegno civile e politico (già, di impegno civile, capito?, proprio nel momento in cui è assillata da privatissime questioni).
Il film – disseminato di picchi emozionali e siparietti comici – ha un substrato tragico: parla infatti della inevitabile decadenza che sopraggiunge per ragioni anagrafiche; della vita come graduale eterno abbandono; del presente che procede consumando il futuro ed estinguendo il passato. Parla dei giorni che avanzano (Domani è un giorno in meno) e rotolano, inghiottono prospettive e annichiliscono speranze; degli anni che trascorrono e lasciano dietro di sé paesaggi sempre più lontani e nebbiosi; dei ricordi confortanti che si perdono e si annullano; dei riferimenti affettivi che si consumano e svaniscono; delle vive emozioni dei tempi migliori che si prosciugano e avvizziscono. Parla soprattutto della consapevolezza di questo sfacelo e dell’incapacità a comprenderlo, dell’inefficacia dell’ironia o della filosofia e dell’impotenza ad affrontare la degenerescenza (questo dice lo smarrimento per un allagamento incontenibile, questo spiega la incomprensibile disperazione per una stupida bolletta introvabile).
Il tempo che cancella le persone che rappresentano il passato non solo fa il deserto dietro le nostre spalle ma riverbera i suoi effetti sul presente (come accadeva in Ritorno al futuro) ne guasta i rapporti, congela gli affetti, paralizza l’emotività, tarpa la creatività; e pregiudica il futuro, lo rende vuoto di attese e di speranze, inutile, indesiderabile. Come succede ad un albero al quale si tagliano le radici.
Non serve dimettersi dal lavoro quasi come per volersi dimettere dalla vita, o arrendersi come per non esserci (come fa Giovanni); non aiuta urlare e ribellarsi, inveire e scaricare le tensioni contro l’universo (come fa Margherita); e la realtà non la si modifica nemmeno singhiozzando con la testa sotto il cuscino (come fa la figlia di Margherita).
PS
La frammentarietà delle scene che si susseguono senza un apparente disegno narrativo è un po’ sconcertante; ad essere benevoli si può pensare che forse sia studiata e acquisti una sua funzionalità in un film che procede su più piste, accumula situazioni diverse per rappresentare il disorientamento, scavalla spesso dal reale all’onirico e alterna il tragico e il comico, con Turturro che gigioneggia alla grande con i suoi siparietti esilaranti interrompendo (non attenuando) il clima depressivo che attraversa il film.
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